Chantal Pistelli McClelland è una ragazza italo-americana, una modella e una sportiva ai massimi livelli. Non ha niente da invidiare ad altre modelle come quelle che si vedono sulle riviste di moda o in televisione: ha charme, espressività e quando fa sport, sia sul surf che sullo snowboard, non teme rivali a livello olimpico. Anzi, forse sarebbe meglio dire a livello para-olimpico: da quando è nata, Chantal è affetta da una aplasia al piede destro. Un “problema” che molti considererebbero un handicap ma che lei definisce una “meravigliosa unicità”.
Buongiorno e grazie per averci concesso un po’ del suo tempo. Lei, dalla nascita, è affetta da un’aplasia al piede che la costringe a portare una protesi. Non deve essere stato facile durante la sua infanzia e poi nell’adolescenza, specie per ciò che riguarda il rapporto con i suoi coetanei.
“Grazie a voi per il vostro lavoro e l’interesse nel voler contribuire ad abbattere barriere mentali ancora molto, troppo presenti nel nostro quotidiano e per condividere storie di persone eccezionali come ad esempio l’intervista fatta al mio caro amico Stefano Pietta.
Come avete detto, sono nata con un’aplasia al piede, una condizione che nei primi anni di età non mi ha comportato alcun disagio. Un bambino non conosce la “normalità”, perciò per me era perfettamente normale avere un piede solo, mi ricordo che guardavo mia sorella con curiosità quasi a chiedermi se non fosse strana lei ad averne due. Durante gli anni scolastici iniziai a percepire la mia situazione come una disabilità perché iniziai a vederla negli occhi degli altri. Da quel momento cominciò un lungo periodo nel quale la mia disabilità si trasformò in un peso, mi precedeva ovunque andassi, ero giudicata solo e soltanto per la mia condizione fisica e isolata come fosse contagiosa. A scuola era un incubo e fuori, ad esempio al mare, le persone, bambini e adulti, si chiamavano per sbirciare e commentare ad alta voce i pensieri più assurdi accompagnati da sguardi misti tra commiserazione e disgusto. Sembrava che Chantal non esistesse più, era la mia protesi a esistere al mio posto. Nonostante durante l’adolescenza vari episodi negativi svanirono, non scomparve l’insicurezza ormai radicata in me come vecchie radici, complice anche l’età adolescenziale già di per sé abbastanza delicata, mi ammalai di depressione e disturbi alimentari”.
Poi è cambiato qualcosa. Ricorda quando è avvenuto e se è stato legato ad un evento particolare?
“Al termine del periodo scolastico e una prima parentesi di studi a Milano, satura del giudizio negativo esterno, mi richiusi in casa, nella mia stanza. Ci rimasi più di un anno fin quando non capii che quella soluzione non era un rifugio al sicuro dal mondo, ma un modo per non affrontare i miei demoni e così decisi, un giorno qualunque, di comprare online un biglietto per Parigi e di partire da sola. Prendere un po’ le distanze, iniziare a conoscermi lontana da influenze esterne fu il primo passo che mi ha portato a un reale cambiamento. Il secondo è stato, al mio ritorno, iniziare una terapia. Questa prevedeva degli incontri con psicologa, psichiatra e dietista, quest’ultima contribuì a farmi uscire dal guscio proponendomi di portare a spasso la sua cagnolina, Lucy. Uscivo di casa solo per andare a prendere Lucy e portarla al parco, io e lei lontano da tutto, giorno dopo giorno ripresi in mano la mia vita, grazie a una cagnolina e alla profonda determinazione di non voler più far condizionare la mia vita dal giudizio esterno”.
Oggi divide il suo tempo tra il lavoro come modella e lo sport che pratica ai massimi livelli. La sua protesi è diventata molto più che un semplice accessorio per la deambulazione: è un oggetto di moda ma anche un attrezzo sportivo professionale. Non deve essere stato semplice pensare a tante versioni…
“La mia protesi fa parte di me, ci conosciamo da tutta la vita e ho imparato a volerle bene. Mi accompagna nel lavoro durante i vari servizi fotografici. Per questo, un bel giorno, mi è venuto in mente di contattare Francesco Spanò, un mio caro amico artista e chiedergli di decorare le mie protesi così da renderle ancora più personali. Pensammo ai disegni da fare e devo dire che sono venuti fuori dei veri capolavori. Quella con il piede inclinato di dieci centimetri che uso per indossare le scarpe con il tacco (10cm appunto) è rivestita di foglie d’oro; quella per tutti i giorni ha raffigurato un lupo, una delle mie passioni e quella sportiva ha dei disegni a tema marino”.
L’idea di rendere una protesi qualcosa di personale, come un oggetto d’arte o un accessorio da cambiare e indossare a seconda delle diverse occasioni è eccezionale. Che difficoltà ha incontrato nel personalizzare queste protesi?
“Esistono in commercio cover per protesi, ma a causa del mio moncone lungo non posso usufruirne. Penso che guardare cosa non si può fare non porti a niente, guardare cosa si può fare con quello che abbiamo porta a grandi soddisfazioni. Grazie a Francesco, il mio amico artista, che mi ha permesso di esprimermi in termini creativi attraverso la sua bravura, adesso ho delle protesi assolutamente uniche, oggetti d’arte come avete detto voi”.

Lei pratica diversi sport, sia estivi che invernali, anche a livello agonistico. E, ci permettiamo di dire, con risultati eccellenti. Quali sono stati i problemi legati alle protesi da usare per praticare sport?
“Pratico trekking e snowboard per divertimento e per puro amore il surf, questo anche a livello agonistico. Del surf amo il contatto con la natura e con il mare, sono sensazioni impagabili così come la libertà che si prova a cavalcare l’onda o il momento di pace nell’attesa del set. Sono innamorata di ogni attimo vissuto in questo sport. Per la pratica sportiva uso una protesi identica a quella che indosso per camminare quotidianamente in realtà, con l’unica differenza che la cuffia da mettere sul moncone non è foderata in cuoio, per questo posso bagnarla. E’ una protesi a livello sportivo limitante: questo è dovuto alla lunghezza del mio moncone, troppo lungo per usufruire di vari tipi di tecnologie che permettono di avere un po’ di mobilità all’altezza della caviglia. Sono meccanismi che non posso usare, perciò ho una protesi rigida e nei movimenti sulla tavola da surf è un po’ restrittivo, ma ho imparato ad affrontare i miei limiti e questa situazione vuol semplicemente dire che lavorerò più sodo per colmare le mie mancanze o imparerò a surfare senza protesi”.
Lavoro, sport … una vita piena di impegni. Eppure è riuscita a trovare il tempo anche per svolgere una intensa attività sociale a favore dei minori con disabilità con una nuova associazione. Ce ne vuole parlare?
“Certamente e grazie per darmi l’opportunità di parlarne. L’associazione si chiama Unique APS (associazione promozione sociale) ed è nata con l’intento di dare omaggio a tutte quelle persone che vivono con passione e propositività, non facendosi ostacolare da una caratteristica fisica, ma volendo dare valore alla fortuna di essere al mondo. Abbiamo scelto di avvalerci di veicoli di comunicazione quali le arti visive, cioè l’arte in ogni sua forma: teatro, radio, musica, performance, scrittura, pittura, arte digitale, esposizioni, mostre, laboratori e molto altro, per dar libero sfogo alla creatività. L’arte contribuisce a osservare le cose da varie prospettive e punti di vista e noi crediamo fermamente che questo possa aiutare a far aprire le menti e a vedere ciò che prima sembrava “diverso”, una meravigliosa unicità per il modo di essere nella sua interezza. Vogliamo inoltre abbattere le etichette e gli stereotipi presenti in molti ambiti, questi portano la persona a non sentirsi adeguata perché non corrisponde a dei canoni estetici creati a tavolino. Insomma, l’associazione Unique APS promuove le unicità di ognuno, non solo dei minori, vogliamo far capire a quante più persone possibili che “nessuno è come te, questo è il tuo potere!”, questo è anche il motto della nostra associazione”.
Sentire le parole di Chantal ci ha fatto riflettere su tante cose. A cominciare dal significato stesso di “disabilità”. Dopo averla ascoltata, sembra quasi che più che di “disabità” o di “handicap” si dovrebbe parlare di “unicità”, di “singolarità”, di un modo di essere diversi gli uni dagli altri. E forse, a pensarci bene, è proprio questo che fa più male a milioni di bambini e persone “uniche”: il modo in cui molti li guardano, il modo in cui la gente, la società alza (a volte involontariamente altre volte, invece, volutamente) delle barriere che non dovrebbero esistere. Barriere che non sono quelle fisiche (che pure esistono come è emerso durante la recente pandemia): sono prima di tutto quelle sociali, umane, psicologiche. Non sarebbe difficile abbattere molte di queste barriere e consentire a tutti di essere uguali in una cosa sola: vivere una vita normale. Ma per molti, questo non è ancora chiaro. É per questo che è fondamentale l’esempio di persone speciali come Chantal. Persone alle quali dobbiamo solo dire GRAZIE per averci ricordato che siamo tutti diversi e che, forse, siamo noi e non loro, a dover superare certi limiti.
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