A scansare il freddo nordico per il passaggio al nuovo ventennio mi sono trovato a subire il freddo e la pioggia di Hammamet. Era anche un modo per ripetere quel pellegrinaggio a Cartagine, compiuto anni fa e oggi rivelatosi come una visita a un luogo creato dalla nebbia dei miei ricordi. Era il dolore per lo slogan virale ripetuto da Catone, proprio lui il Censore, quell’assillante, «Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta!» (Ceterum censeo Carthaginem esse delendam!». Ero ritornato ad interrogarmi sulla versione di Appiano su Scipione Emiliano che piange, allo spettacolo di sei giorni e sei notti di battaglia, sulle stragi e le fiamme della città, ripetendo i versi dell’Iliade, «Giorno verrà in cui il nostro sacro Ilio e Priamo e il popolo sul quale il guerriero Priamo governa, periranno tutti» (Iliade, VI, 448-449). Alla richiesta di spiegazione del greco suo protetto Polibio egli «non ha esitato francamente a nominare il suo paese, per il cui destino temeva, quando considerava la mutabilità della sorte umana».
Alla città, prima martire dell’imperialismo repubblicano, pensavo davanti al capo di un odierno Stato, definito democratico, che decide autonomamente, senza consultare il Congresso, di divenire terrorista, per prevenire un inventato attacco terroristico. Tutto per basse e sporche manovre politiche, abietta campagna per l’ultima prossima rielezione di un uomo assillato da giudici che lo indagano e lo minacciano di impeachment, non per falsa dichiarazione come avvenne per Nixon o per questioni di sesso come per Clinton, ma per tradimento e connivenza con la Russia, l’eterna nemica, sia sotto dittature comuniste sia sotto quella di Putin di destra. Così un tempo la guerra preventiva e terapeutica di Israele contro l’Egitto, così l’invenzione di uso di armi chimiche e biologiche da parte di Saddam e l’oscena sua impiccagione in diretta il alle 6 del 30 dicembre 2006 voluta da George W. Bush junior, dopo un processo farsesco imbastito dagli Iracheni.
In questo stato d’animo inorridito davanti alle guerre purificatrici per preservare la sicurezza dello stato egemone dell’Occidente, padrone della NATO e dell’ONU da tempo rumorosamente assente davanti agli eccidi medio-orientali, mi immersi in un colloquio con le persone della strada. E rimasi scioccato, appena mi dicevo italiano, delle subitanee e spontanee dimostrazioni di rispetto, di riconoscenza, di amore sincero, in elogio del nostro statista per loro un benefattore e un padre. Dall’autista del pullman, al tassista, all’anonimo cittadino incontrato per caso alla fermata dei taxi. E mi commosse, stupì e incuriosì questa generale beatificazione di Bettino Craxi, il profugo, l’immigrato, l’artefice di tutti i mali durante quello sconvolgimento radicale del sistema politico italiano che si segnò con l’icona di “Mani Pulite”. E tutti mi parlarono in uno slancio di entusiasmo dei preparativi della solenne Celebrazione del Ventennale dalla morte che cade in questo nuovo decennio bisestile, il 19 gennaio 2020, delle grandiose feste che si stanno preparando, un film che esce proprio in queste ore in Italia, “Hammamet” di Gianni Amelio con Pierfrancesco Favino, trasformato in lui con tecnica di trucco all’avanguardia.
Tutti concordi nel celebrare la bontà d’animo dell’uomo, stanco e sofferente, e il soccorso immediato ai deboli e ai diseredati senza che loro lo implorassero. In Italia le solite scaramucce per l’intitolazione di una strada e viaggi organizzati. Perciò, come non avevo fatto in un primo viaggio e come non rientrava nei miei programmi di turismo curioso o di adorante proselita ho chiesto della sua celebre tomba. Facile, mi disse l’autista del tour che mi aveva condotto a Cartagine e poi al grandioso Museo del Bardo, tutto un immenso mosaico romano, unico al mondo per vastità; negli gli anni del boom romano delle ville grandiose, dell’urbanizzazione e di ricchi coloni, ma anche di grandi come Apuleio e l’umano Agostino che descrisse la città di Dio. «Davanti all’entrata principale della Medina giri a destra e costeggi le mura, la troverà là».

Proprio di fronte al vasto cimitero musulmano, addossato alle mura la trentina di tombe dei Cristiani. Mi venne incontro Kamil, uno smilzo ometto claudicante, e mi guidò senza domande alla tomba. E la commozione e la sorpresa tra tutta l’effusione di parole: «Mi ha pagato l’intervento alla gamba, da uomo caritatevole, era un socialista». Dormiva lì dentro una cappelletta, scopava e toglieva le erbacce, mi indicò lo spazio accanto già riservato per la moglie, Anna Maria Moncini («la parabola discendente di mio marito cominciò con Sigonella, poco dopo iniziò la persecuzione politica della nostra magistratura»). accanto un tavolo con un libro per gli ospiti (finora compilati una trentina fra invettive e atti di amore).
Ho voluto offrire questa sconvolgente testimonianza, essendomi impossibile affrontare in questo spazio nel suo Ventennale dalla morte il “caso Craxi”: troppo complessa la vicenda politica, nazionale ed internazionale, soprattutto umana dell’ultimo statista che abbia avuto questo disastrato nostro paese. D’altronde sono ancora troppo coinvolgenti i giudizi estremamente elogiativi o aspramente e ideologicamente dispregiativi, se non pieni di odio e di rancore. Troppe persone sono ancora coinvolte, perché si possa passare dalla notizia di cronaca alla Storia. Troppa viva ancora l’immagine della pioggia di monetine (lui le disse “rubli”) lanciategli la sera del 30 aprile 1993 davanti all’hotel Raphaël, la ferocia dell’odio con gli slogan ballati e cantati contro l’uomo che, consapevole che si trattava di linciaggio di piazze assatanate e spinte da provocatori non troppo occulti, preferì sfuggire alla giustizia. Ai posteri il giudizio morale. Mi ricordano qui ad Hammamet la sua dichiarazione che avrebbe accettato carcere e giudizio, se tutti i coinvolti e conniventi fossero stati ugualmente processati. Perciò il giudizio alla Storia quando si saranno placati gli animi, tra risentimenti o pietà.
L’attualità mi spinge tuttavia a ricordare la sua coraggiosa politica estera, suo vice Arnaldo Forlani («tra l’essere e l’apparire Craxi privilegiava l’essere»), ministro degli esteri Giulio Andreotti con la nomea di filo-arabo. I fatti potranno parlare da sé in questo contesto in cui la nostra stampa disquisisce oggi sulla questione dei missili lanciati dalla base di Sigonella, tra osannanti come Salvini, flaccidi spettatori come un inadeguato ministro degli esteri. Forse sarebbe il caso di ricordare la crisi dell’ottobre 1985, quando si rischiò uno scontro armato tra Vigilanza aeronautica militare e carabinieri con la Delta Force, sotto il governo di Ronald Reagan.
Almeno dal tempo del “buon” Kennedy che diede l’avvio alla guerra del Vietnam dopo lo smacco di Cuba (NY Times, giugno 1961: «Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarlo»), ma addirittura fino all’assassinio di Saddam si parlò di difendere la democrazia e la libertà di tutti i cittadini nel mondo, di volere esportare la libertà contro tutte le dittature (mai e nessuno fa cenno all’Arabia, anzi, pare che l’assassinio di Qasem Soleimani sia strettamente legato alla difesa del petrolio arabo). D’altronde è un principio insito nell’imperialismo, sostenuto addirittura dall’homo novus Cicerone, l’espressione più alta dell’umanesimo latino: i protagonisti del De re publica, discutendo sulla giustizia e sulle guerre di conquista per ampliare ricchezze e allargare confini a danno di altri popoli, giungevano a giustificare l’imperialismo romano in quanto apportatore di civiltà fra popoli di per sé incapaci di autogoverno.
Chiara fu nella sua condotta di politica estera la difesa dei diritti degli Stati e della nostra libertà di scelta di giudizio e di azione, in nome della giustizia. Quel malcondotto attacco alla Libia con le bombe sulla casa di Gheddafi e la morte di familiari, e di contro i risibili missili di un dittatorello che si afflosciarono prima di giungere a Lampedusa nel 1986 provano le scelte dello statista Craxi davanti ad una evidente aggressione militare. Tra accuse di informazioni segrete, la sua ferma opposizione ad un’aggressione inutile e non risolutiva della questione libica. La recente testimonianza del consigliere diplomatico di Craxi a Palazzo Chigi, l’ambasciatore Antonio Badini, scioglie il nodo: Reagan inviò Vernon Walters per informare Craxi dell’imminente attacco a Gheddafi, egli tentò di convincere gli statunitensi a desistere e decise di salvare la vita al leader libico per evitare un’esplosione di instabilità in un Paese islamico di fronte all’Italia. Anche se le cosiddette democrazie non mollarono fino al disonorevole assassinio del dittatore che viveva sotto una tenda.
E l’altro intervento diplomatico in Tunisia nel novembre 1987 a sostegno del colpo di stato di Ben Alì, prevenendo le mire francesi di porvi un proprio uomo.

Abbiamo davanti agli occhi il disastro della Libia, le stragi perenni, il duello tra due generali e tanti nomadi che non riescono a vincere, in un paese devastato. Davanti all’incapacità e all’inerzia della tanto decantata NATO, associazione di parata, come appare l’ONU in un mondo imploso tra albagie di potere e vittime tra macerie fumanti, la decisione del Parlamento turco di intervenire ci mette davanti ad una realtà umiliante e tragica. Con Giolitti abbiamo tolto la Tripolitania e la Cirenaica (e il Dodecanneso) all’Impero ottomano di Mehmed V della Sublime Porta con una conquista disonorevole per crudeltà e deportazioni di prigionieri, durata dal 1911 al 1912 con seguito fino al 1824, per ottenere anche noi un “posto al sole”, ci siamo stati per un trentennio senza scoprire l’immensa ricchezza del petrolio, abbiamo impiantato le nostre trivelle dell’ENI solo con Gheddafi, che salvò la FIAT con i suoi capitali per essere poi cacciato a salvataggio avvenuto, ed ora la nostra inetta politica estera attende dopo più di un secolo che la Turchia di Erdogan ritorni con voto unanime sulle coste di fronte a noi.
E cosa facciamo noi popolo? Dove son finiti i sit-in a Sigonella? Che popolo siamo diventati? Silenzio e tomba davanti all’esultanza del baldanzoso Salvini e ai terribili venti, direi bufere di guerra, a noi vicinissime. Però ci lamentiamo per i nostri soldati offerti al dominatore e sparsi per le ombre di Stati orientale, dal Libano all’Afganistan all’Iraq. Contiamo quanto la libera repubblica di Banana.
Solo poetici “lai” si direbbe. E poi inviti alla prudenza e alla soluzione diplomatica. Non so se ridere e piangere senza interruzione come il crudele Scipione.