Questa è una storia di fake news ante litteram, di immigrazione e pregiudizi, sensazionalismo e gentrification. Una storia che affonda le sue radici tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, quando gli “altri”, al di là del mare, eravamo noi italiani. L’ha portata alla luce Stefano Morello, dottorando al Graduate Center della City University di New York e originario di Torino, nel ricostruire le sorti della sua bisnonna, partita per la Grande Mela nel 1913 e scomparsa pochi anni dopo, nel 1920. Lo incontro alla biblioteca del NYC Department of Records and Information Services, al 31 di Chambers Street, Lower Manhattan, dove la sua ricerca – durata quasi 9 anni – è diventata una mostra, di cui lui è curatore insieme a Kerry Culhane. Al centro del suo lavoro di certosina ricostruzione storica, il cosiddetto “Lung Block”, quartiere del Lower East Side di New York divenuto una vivace enclave di immigrazione italiana. Nel tempo, la zona fu però dipinta dalla stampa dell’epoca come simbolo di degrado, sinistro covo di tubercolosi, povertà e dissolutezza, e quando nel 1933 divenne obiettivo degli interessi di speculatori edilizi, è stata infine cancellata dalla mappa. “Ruspe” e allarmi di ieri che tanto ricordano certa propaganda di oggi.
In effetti, di quello che fino a novant’anni fa era il Lung Block – quartiere incastonato tra Monroe, Market, Cherry e Catherine Street – non è rimasto praticamente nulla. Al suo posto, oggi, campeggia il Knickerbocker Village, complesso abitativo di classe medio-bassa composto di 1590 appartamenti in dodici edifici di mattonelle marroni di 13 piani ciascuno, che si sviluppa intorno a due cortili interni e, ormai considerato parte di Chinatown, sorge tra il Manhattan Bridge e il Brooklyn Bridge.
Residuo dei tempi andati, la St. James Catholic Church, parrocchia della comunità irlandese a un paio di isolati di distanza, e la Chiesa di St. Joseph – oggi agghindata di cartelli in cinese –, ampliamento dell’antica Cappella di St. Rocco che costituiva, a sua volta, un prolungamento della St. Joachim Church, una delle prime parrocchie negli Stati Uniti dedicate a una comunità italiana. Neppure è possibile trovare discendenti dei vecchi abitanti dell’epoca, dispersi dopo che i palazzi popolari (“tenements”) un tempo abitati soprattutto da italiani sono stati rasi al suolo dall’imprenditore immobiliare Fred French, per far spazio al Knickerbocker Village. “La sfida più difficile è stata far sentire le voci dei protagonisti di questa storia. Ci siamo riusciti raccogliendo foto di passaporti, articoli di giornali, registri di nascite, morti e matrimoni. Su circa 4000 persone, abbiamo ricostruito la storia di una dozzina di famiglie”, racconta Stefano.
Perché “Lung Block”? L’etichetta (in inglese, “lung” significa “polmone”) fu “appiccicata” all’isolato da Ernst Poole, che, dopo la laurea a Princeton e prima di diventare un autore Premio Pulitzer, nel 1903 scrisse un pamphlet che descriveva, esasperandole, le complicate condizioni di vita nel quartiere. Non era la prima pubblicazione di quel genere: prima di lui, il giornalista Jacob Riis, esponente del movimento riformista, aveva già messo in risalto le difficoltà degli abitanti dei quartieri poveri del Lower East Side, ma non in modo simpatetico. Anzi, aveva dipinto gli immigrati italiani come i più degradati tra i nuovi arrivati europei, non del tutto bianchi, spesso illetterati, passivi e “contenti di vivere in un porcile” e di farsi praticamente derubare dai padroni di casa per vivere in quelle condizioni. Riis diede il via a una narrativa fatta di pregiudizi, che de-umanizzava i suoi protagonisti, spettacolarizzava la diffusione di malattie infettive, come tubercolosi e tifo, spesso con l’intento di promuovere interventi (non sempre disinteressati) di sistemazione e bonifica delle aree colpite. Riis, ad esempio, con la sua propaganda emergenziale, riuscì a far radere al suolo i cosiddetti Five Points, quartiere povero che si estendeva tra le attuali Mulberry Street e Little Water Street, per farvi costruire un parco.
Il lavoro di Poole portò all’estremo questa tendenza. Gli abitanti del quartiere furono descritti come abietti, miserabili e sempre ubriachi. Soprattutto, l’autore tratteggiò l’isolato come esotico covo infettivo di tubercolosi, popolato da scimmie e pappagalli, pericolo non solo per la salute di chi ci abitava, ma persino per quella del resto della città. Per farlo, riutilizzò fotografie che si riferivano alle ispezioni del Tenement House Department di più di un ventennio prima, nonostante, nel frattempo, le New York’s Tenement House Laws del 1879, 1895 e 1901, nonché i progressi in campo medico, sanitario e scientifico, avessero già decisamente migliorato la condizione delle abitazioni, e fatto precipitare l’incidenza della tubercolosi. Al contrario, i grafici pubblicati da Poole, aggregazione approssimativa di dati diversi, davano la fuorviante impressione di un aumento di infezioni tra il 1894 e il 1903. Si creò, insomma, un’emergenza, quando questa era in effetti in via di risoluzione. “Quando è scoppiato il caso delle palazzine MOI, a Torino, e io sono di quella zona”, racconta Stefano, “a leggere la stampa in quei giorni, ho trovato gli stessi artifici retorici, lo stesso sensazionalismo: allarme legionella, allarme tubercolosi e così via. A cento anni di distanza, non abbiamo imparato nulla”.
Una prima petizione per radere al suolo il Lung Block, e costruirvi, al suo posto, un parco, fu promossa proprio nel 1903, e fu sventata anche grazie alla ferma opposizione di Father James Curry, prete della vicina St. James Roman Catholic Church, e del consigliere locale, preoccupato di perdere un consistente bacino elettorale. Eppure, nonostante nel 1908 il quarto rapporto del Tenement House Department dichiarò il Lung Block “bonificato”, la propaganda continuò incessante.
Il tutto, nonostante nel frattempo alcune famiglie italiane, come i Gaimari, si fossero guadagnate un’influenza politica e finanziaria che li rese anche proprietari: un processo che garantì maggiore impegno nella manutenzione degli appartamenti, e che portò a un ulteriore miglioramento delle condizioni abitative. Non bastò: perché nel frattempo Fred French, che nello stesso periodo fu anche promotore immobiliare della Tudor City, mise gli occhi su tutta l’area compresa tra il Brooklyn e il Manhattan Bridge, e decise di rimpiazzarla con un complesso abitativo dedicato alla classe media lavoratrice di Wall Street. Un progetto ridimensionato dalla crisi del 1929, che lo limitò, in ultima istanza, al Lung Block, e che fu favorito dagli sgravi fiscali ottenuti più tardi grazie al New Deal.
Per raggiungere l’obiettivo, non soltanto French utilizzò società di copertura, ma proseguì la propaganda che continuava a serpeggiare da anni, documentando, attraverso fotografi conniventi, le presunte condizioni di vita scioccanti degli abitanti del quartiere. Il fine era chiaro: accomodare, avrebbe poi ammesso, “una certa classe di persone, che non dovrebbe sprecare tempo ed energia a spostarsi, ma dovrebbe essere messa nelle condizioni di recarsi al lavoro a piedi”, e cancellare con un colpo di spugna “un’altra classe di persone […] che non ha bisogno di vivere lì”. Ed ecco la gentrification: nonostante ben 373 famiglie italiane avessero espresso l’intenzione di tornare nel Knickerbocker Village una volta ultimato, solo tre di loro ebbero le capacità finanziarie per farlo. Il risultato fu una comunità dispersa, riversatasi in altri quartieri di Manhattan o di New York, in New Jersey, in Pennsylvania e addirittura in Italia.
Una trama in cui si intrecciano le storie di tanti emigrati italiani, tra cui, appunto, la bisnonna di Stefano, Salvatrice Nigido. “Giunse da Militello per raggiungere il fratello e le tre cognate. Mia nonna, allora, aveva solo 5 anni. Sarebbe dovuta tornare, dopo aver guadagnato abbastanza soldi, ma incontrò Salvatore Placente, colui che, si può dire, diede inizio al flusso migratorio militellese”. Dopo sette anni in cui lavorò come sarta nel suo appartamento al 47 di Market Street, non fu la tubercolosi a portarla via, ma un’influenza pandemica, che ancora proliferava in città. “Mia nonna non sarebbe mai arrivata in America. Avrebbe dovuto ricongiungersi con sua madre nel 1920, ma Salvatrice morì prima che sua figlia potesse partire”. Una storia rimasta in gran parte sconosciuta fino al 2013, quando Stefano, unico membro della sua famiglia a conoscere l’inglese, cominciò a “unire i puntini”. Gettando nuova luce non solo sulle vicende della sua famiglia, ma anche sulla sorte di una delle tante comunità di italiani nel Nuovo Mondo, a lungo obiettivo di pregiudizi, razzismo e allarmismi. Quelli che, per citare un grande cantautore dei nostri tempi, “per non morire si va in America”. Nonostante tutto.