
Amano definirsi “young investigator” piuttosto che cervelli in fuga e fanno parte della generazione di italiani espatriati 6 anni fa per portare un contributo significativo alla società americana. Luca Bartolini e Laura Sanapo, oltre che due brillanti medici sono nella vita una coppia che ha lasciato Padova per arrivare oltreoceano.
Lui, specialista in Pediatria, oggi lavora al National Institute of Neurological Disorders and Stroke di Washington D.C, dove si occupa di epilessia e svolge attività di ricerca sul ruolo dei virus e dell’infiammazione nell’epilessia del bambino, in collaborazione col Children’s National.
Laura invece è una specialista di fetal medicine al Children’s National, dove fa counseling e svolge ricerca con metodiche di imaging d’avanguardia sullo sviluppo fetale e sulle gravidanze complicate da malformazioni.
Giovani, brillanti, ci raccontano in questa intervista doppia cosa l’Italia ha da imparare dall’America e cosa da insegnare, cosa significa essere un giovane ricercatore italiano oltreoceano, crescere una figlia nell’America di Trump e a quali condizioni un giorno tornerebbero in Italia.
Partiamo dalla cronaca e dalle vicende che in Italia hanno portato all’arresto di alcuni docenti universitari dopo le denunce di un ricercatore sulle modalità di assunzione. Modalità che tutti conosciamo ma che solo ora sono state oggetto di un’inchiesta. Come commentate questo episodio di cronaca?

Luca: “Difficile dirsi perché solo ora si arrivi ad un’azione concreta della magistratura. Mi auguro che questi arresti della “punta dell’iceberg” siano un segnale che i tempi sono finalmente maturi per un cambiamento sostanziale nelle università italiane, e per realizzare un nuovo sistema che non si basi più sul clientelismo ma che abbia delle regole chiare scritte nero su bianco e valide per tutti gli atenei riguardo la valutazione dei candidati, e includa completa trasparenza nell’intero procedimento. Serve un organismo esterno super partes – sicuramente non i singoli atenei – che stabilisca le regole del gioco. Questo problema però non è limitato alla scalata dei ranghi accademici, ma si applica a molti altri aspetti, come la pratica della medicina per esempio. Attualmente in Italia non esiste un organismo esterno che certifichi che un medico specialista è davvero in grado di fare il suo mestiere, basandosi su un esame e la valutazione complessiva del training che ha fatto. Il problema è che neo-specialisti di alcune università sono eccellenti, mentre alcuni di altre università non sono in grado di praticare in autonomia, specialmente nelle discipline chirurgiche, dove quello che conta per esempio è quanti interventi hai fatto direttamente e non semplicemente osservato. Qui negli USA una commissione per ciascuna disciplina valuta ogni aspetto del training di ogni singolo candidato, il quale deve poi passare un esame complesso (i cosiddetti “boards”) e passarlo nuovamente ogni 10 anni per mantenere attiva la licenza. Il registro di chi ha passato i boards è pubblico, cosí i pazienti possono guardare se il loro medico è incluso. Non ci sono segreti o sorprese e non è possibile diventare professore se non hai passato i boards e di fatto nessun ospedale assumerebbe un medico senza questa licenza. In questo, come dicevo prima, l’Italia ha ancora tanto da imparare dagli USA e secondo me siamo ancora lontani dall’implementare un sistema simile. E’ bello pensare però che eventi come l’arresto dei “baroni criminali” siano un inizio, e non semplicemente un’eccezione”.

Laura: “I problemi di corruzione e di mancata meritocrazia, secondo me, sono favoriti da una non chiara regolamentazione dei percorsi accademici. Credo che il sistema americano possa dare buoni suggerimenti: ogni step nella carriera scolastica e poi lavorativa, va giudicato da commissioni esterne e le valutazioni basate su criteri oggettivi.
Bisogna rendere i criteri per l’ammissione a vari corsi di studio e professioni, quantificabili, usando scale standardizzate. Questi criteri dovrebbero includere sia risultati di esami, sia risultati di stage o progetti portati a termine dal candidato, quali internship. Ovviamente questo è possibile, se ogni candidato ha le stesse possibilità di accedere a queste attività.
La natura umana, si sa è corrotta, quindi, a mio parere, bisogna evitare che uno studente o un giovane professionista faccia domanda nell’ateneo o nello studio dove uno dei familiari o amici occupa una posizione di rilievo. O, se questo avviene, fare in modo che familiari e/o amici non siano nella commissione preposta a giudicare.
Credo che in tutti i paesi ci siano problemi di non meritocrazia e corruzione, però se i sistemi educativi e professionali sono organizzati con trasparenza, questi aspetti negativi si possono evitare. Purtroppo in alcuni ambienti e paesi (ripeto, la corruzione non esiste solo in Italia) si sviluppa una certa tolleranza alla corruzione, per il semplice fatto che non si costruiscono modelli alternativi”.
Cervelli in fuga vs cervelli in viaggio. In quale delle due dimensioni vi ritrovate?
Luca: “Inizialmente mi sentivo più in fuga, da un sistema accademico antiquato e dove sentivo che fare carriera sarebbe stato estremamente frustrante. So per certo che non siamo mai stati “in viaggio”: quando siamo partiti sapevo che non sarebbe stato un soggiorno provvisorio di 6-12 mesi per poi tornare in Italia senza in realtà aver avuto il tempo di combinare qualcosa di significativo. E’ stata una scelta forte, dettata dal desiderio di conoscere e di perseguire un obiettivo, quello di imparare davvero il mestiere del neurologo ed epilettologo pediatrico, senza farmi intimorire dalla traversata transoceanica e dai 7 ulteriori anni di training. Ora però non mi sento più in fuga, ma semplicemente un medico che ha deciso di vivere e lavorare negli Stati Uniti”.
Laura: “Cervelli in viaggio. Non mi sono mai considerata un cervello in fuga perché non sono fuggita dall’Italia. Semplicemente mi sono messa in viaggio alla ricerca di training avanzati nella mia professione. Ho iniziato ad appassionarmi di embriologia e tecniche di diagnosi prenatali fin dai primi anni universitari, a Medicina, all’Università degli Studi di Parma. Ogni volta che leggevo un libro o un articolo su questi argomenti, guardavo con attenzione, e lo faccio tutt’ora, le università di provenienza degli autori, molti con esperienze in più centri, il loro background e le risorse che avevano a disposizione, ad esempio laboratori con gruppi di biologi o bio-ingegneri nel campus medico. Quindi non ho mai pensato che avrei studiato e lavorato sempre nella stessa città o paese. Inoltre, durante la mia formazione in Italia ho avuto la fortuna di lavorare in due centri universitari, Università di Parma e Padova con ottimi professori che mi hanno sempre sostenuto nelle mie scelte.
Dal 2011 al 2014 siamo stati in città diverse, Luca a Washington dal 2011 in poi, mentre io prima a Baltimore e a Philadelphia. Nel 2014 ho fatto domanda a Washington e ho ottenuto il lavoro. E stata dura stare lontani i primi anni ma ora siamo felicissimi di lavorare nella stessa città!”
Le differenze nel vostro campo rispetto all’Italia, quando si parla di ricerca e professione?
Luca: “L’Italia è un paese splendido, e molti dei medici con cui ho lavorato prima di partire sono decisamente competenti, per cui non mi sento per niente parte del gruppo di persone che dall’estero pontifica sull’inadeguatezza e inferiorità del sistema sanitario italiano. Anzi, sono riconoscente dei miei mentori, che mi hanno reso il medico che sono prima di venire qui negli USA. D’altro canto, per una persona molto investita in ambito accademico come me, è inevitabile riconoscere che in Italia la vita accademica è estremamente complicata e purtroppo ancora molto legata al nepotismo e clientelismo. I prof sono generalmente più anziani di quelli americani, ma non necessariamente più competenti. Le cattedre vengono decise a tavolino dalle “eminenze grigie”, mentre qui devi avere una mole di dati oggettivi che ti caratterizzi come insegnante, medico e ricercatore per avanzare nei ranghi. La rete di conoscenze chiaramente aiuta anche qui, ma non in senso di favori, quanto piuttosto opportunità per collaborazioni e ulteriore crescita professionale. La ricerca che io posso svolgere qui in stretta collaborazione tra National Institutes of Health e Children’s National Medical Center, probabilmente non avrei mai potuto nemmeno concepirla in Italia. Qui ho accesso a uno dei più grossi ospedali pediatrici degli Stati Uniti per l’arruolamento dei miei pazienti, e ad un laboratorio di neuroimmunologia e virologia che è all’avanguardia a livello mondiale per tecnologia e competenze. L’impressione che ho è che in Italia si punti di più sulle eccellenze individuali, mentre qui è il lavoro di equipe che prevale a tutti i livelli e permette di ottenere risultati incredibili. Per fare un esempio, in laboratorio uno dei miei collaboratori è uno studente che ha finito il college e vuole diventare un medico, così ha applicato per fare un anno di ricerca all’NIH e l’ho assunto con i miei fondi di ricerca. Questo in Italia è impensabile. Io stesso alla fine del liceo e durante i primi anni di università non avrei mai pensato di dedicare un anno della mia vita alla ricerca e di rinunciare alle vacanze estive al mare con gli amici.
L’università per essere sana e poter trasmettere valori positivi agli studenti ha bisogno di una miscela di professori giovani e intraprendenti e professori più “senior” ma che non abbiano mollato intellettualmente. Medicina è una vera e propria arte, che richiede infinita pratica, non solo speculazione. Qui gli studenti imparano a fare il medico prima e in modo più efficace, il training è molto strutturato ed equiparabile nelle diverse università. Ci sono indicatori oggettivi che o raggiungi o semplicemente vieni rispedito a casa. Non c’è spazio per il compromesso.
La neurologia pediatrica in Italia non esiste in quanto tale. I pazienti vengono visti o da neurologi dell’adulto (ma il bambino non è affatto un adulto in miniatura), o da pediatri, che però non hanno fatto un training specifico da neurologo, o da neuropsichiatri infantili, ma la psichiatria infantile è una materia di per sé vasta e complessa, tanto che sembra quasi impossibile pensare che una persona possa essere esperto sia di neurologia che psichiatria allo stesso tempo, specialmente al giorno d’oggi con l’enorme avanzamento delle conoscenze nelle rispettive materie. Per questo dopo essermi specializzato in pediatria ad indirizzo neurologia infantile a Padova, ho deciso di venire a Washington DC, sono diventato Child Neurologist e ora sto completando il training per essere epilettologo certificato”.
Laura: “Sono convinta che in entrambi i paesi, Italia e USA, ci siano ottimi medici e ricercatori scientifici, dotati di grandi competenze in diversi settori. La differenza che noto, è che il sistema educativo delle discipline mediche è molto meglio organizzato e più standardizzato. E soprattutto non si limita al periodo universitario. I medici americani hanno creato metodi di teaching quotidiano e certificazioni, oramai consolidati negli anni, che interessano tutti gli ospedali di un paese cosi immenso, in corsia e in laboratorio, anche dopo la laurea. Questo favorisce un continuo aggiornamento e migliora la preparazione scientifica di giorno in giorno, indipendentemente dall’università di origine. Nonostante in Italia non ci siano queste risorse, vorrei ricordare che abbiamo delle eccellenze. Molti esperti di medicina fetale, la mia materia, citano a congressi e in pubblicazioni scientifiche i risultati di ricerche condotte in Italia, molte delle quali, condotte da alcuni dei professori che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso”.
Cosa l’Italia deve imparare dall’America e cosa l’Italia ha da insegnare?
Luca: “L’Italia deve imparare il rispetto delle regole, l’organizzazione, il rispetto per le competenze professionali, il valore del lavoro e la multi-culturalità dagli USA. Per contro, l’Italia ha da insegnare agli States la flessibilità, la creatività dell’individuo, il rispetto della salute come valore per una intera società al di la del reddito, colore della pelle e assicurazione”.
Laura: “L’Italia deve imparare dall’America tre cose: l’efficienza sul lavoro, il team work e il coraggio. Essere efficienti sul lavoro vuol dire mantenere alto il livello delle proprie competenze, rispettare le deadline e avere senso di responsabilità nei confronti dei colleghi e dei pazienti. Team work significa saper lavorare in gruppo in modo trasparente, dove il ruolo di ciascun membro (da leader, a co-leader etc…) viene assegnato a seconda delle specifiche competenze del singolo e delle qualità caratteriali. Allo stesso tempo, il team deve rimanere dinamico, ossia, a seconda del progetto, i ruoli tra i membri del gruppo (come ad esempio primo e ultimo autore verso co-autore in caso di una pubblicazione scientifica), possono cambiare, se si ritiene che sia necessario un nuovo leader per uno specifico obiettivo. Team work significa inoltre condividere sia i successi e le difficoltà del gruppo e dei vari membri, in modo costruttivo, mantenendo sempre una comunicazione aperta. Coraggio vuol dire sapersi rimettere in gioco. Ossia porsi nuovi goal professionali e di vita, sia in caso di eventi inaspettati e non, senza farsi intimorire da ulteriori training e trasferimenti in nuove città qualora fossero necessari.
L’Italia deve insegnare il concetto di flessibilità, passione, e la cultura del cibo buono, salutare e consumato in compagnia. Essere flessibili nel lavoro vuol dire essere creativi ed avere una soluzione immediata in caso di emergenze di vario tipo, ad esempio improvvisa mancanza di personale o strumenti, specialmente in assenza del famoso piano “B” dettagliato. Flessibilità nella vita privata è avere la liberta di invitare a cena un amico all’ultimo momento, senza dover dare preavvisi di mesi. Passione per il lavoro significa lavorare ore extra e/o in assenza delle risorse di cui avremmo bisogno senza lamentarsi. Conosco medici italiani eccezionali che fanno ricerca e “teaching” agli studenti in alcuni atenei italiani senza avere nessun ricompenso economico. La passione in medicina è fondamentale, ancor prima delle risorse, anche se pero non può essere l’unica “driving force”, altrimenti non garantisce l’efficienza. E poi noi possiamo, anzi, dobbiamo insegnare la felicità di un caffè o una pausa pranzo, anche breve, ma spesa con i colleghi, se possibile, e non davanti al computer”.
American dream, mito o realtà?
Luca: “Realtà. Se sei bravo vai avanti, chiunque tu sia. Se togliessero i medici stranieri dagli ospedali e dalle università americane, probabilmente dovrebbero chiudere i battenti, considerato che molti, anche giovani, occupano posizioni di leadership. Questo a mio parere è un buono specchio di come una società abbia valorizzato chi si è rimboccato le maniche e abbia lavorato duro, anche se straniero. Chiaramente non è tutt’oro quello che luccica, soprattutto quando si considera quanto difficile sia la strada per l’immigrazione, particolarmente per medici che non abbiano sposato o che non siano nati da Americani”.
Laura: “Realtà prevalentemente. Per ora mio marito ed io lavoriamo e viviamo qui. Riconosco la meritocrazia che c’è e le opportunità che abbiamo in campo professionale, ma non credo di avere mai mitizzato questo o altri paesi, Italia inclusa”.
Tornereste in Italia solo se…
Luca: “Tornerei forse se mi offrissero di dirigere un centro di epilessia pediatrica, con la possibilità di continuare la ricerca di cui mi occupo e di fare chirurgia dell’epilessia. La carriera negli Stati Uniti è molto più lineare e in genere devi fare molti meno compromessi per raggiungere il tuo obiettivo, per cui l’offerta dovrebbe essere davvero buona per accettare di trasferirci di nuovo”.
Laura: “Se oltre a flessibilità, passione e buon cibo, trovo l’efficienza sul lavoro, il team work e persone coraggiose”.
La cosa che vi manca di più del vostro paese
Luca: “I miei amici storici dell’università e di Pediatria. Mia mamma mi manca molto, ma ormai viene a visitarci molto spesso e paradossalmente sto di più con lei ora che quando vivevo a Padova. Mi manca anche la qualità di vita dell’Italia: l’aperitivo in piazza con gli amici, la piadina in spiaggia, le gite del weekend in motocicletta, la pizza con gli amici e in generale il cibo buono a poco prezzo e il fatto che non tutto ruota intorno al lavoro”.
Laura: “Gli affetti. Il tempo (purtroppo tantissimo) che ho sottratto a genitori, sorelle, nipoti e persone care non me lo restituirà mai più nessuno. Face time e Skype aiutano a colmare le distanze, ma non è la stessa cosa”.
Lavorare, vivere, crescere una figlia nell’America di Trump
Luca: “Per me questo è un argomento davvero dolente. Per fortuna Anna è ancora piccola e quindi spero che quando sarà grande abbastanza per iniziare a capire la politica, Trump se ne sia andato per sempre. Questa persona incarna l’opposto dei valori in cui credo e che stiamo cercando di trasmettere a nostra figlia: è incompetente, volgare, misogino, omofobo e xenofobo, violento, superficiale, senza alcuno spessore umano e politico, e purtroppo non dà giustizia ad un paese che non è solo fatto di fucili e fast food. Lavorare a stretto contatto con bimbi malati e le loro famiglie nell’America di Trump è quantomai difficile, perché ogni giorno ti fermi a pensare che le azioni scellerate di questa persona abbiano davvero un impatto enorme sui più deboli, e che il divario già molto forte tra ricchissimi e poverissimi non faccia altro che peggiorare”.
Laura: “Si, è possibile, perché esiste anche l’America non di Trump. Innanzitutto non credo esista il paese o la città perfetta. O un gruppo politico rappresentante del bene ed un altro del male. Inoltre ho la fortuna di vivere in una città, Washington DC, molto “open minded”. Qui ho imparato il concetto dello ius soli e a relazionarmi e a lavorare con persone di culture diverse. Mi sono preparata per questo. Ad esempio, ho letto libri di autori sia ebraici, sia musulmani, sia induisti, per entrare nei dettagli di certe culture e religioni che prima non avevo avuto la fortuna di conoscere. Il concetto dello ius soli lo vedo espresso in mia figlia. Non ha nemmeno tre anni, ma fin dai primi mesi di vita ha avuto insegnanti e amici americani. Per lei la lingua del gioco e della scuola è l’inglese con accento americano. Se dovessimo rimanere a vivere qui, a lei verrebbe naturale pensare di appartenere a questo paese. Mi auguro che lo ius solis rimanga, così come rimangano le condizioni per essere cittadini con la doppia cittadinanza. Questo vuole dire trovare un ambiente che permetta di sapersi integrare con culture diverse pur mantenendo una propria identità”.
I risultati più grandi che avete ottenuto nel vostro lavoro
Luca: “Il risultato più grande è stato ricevere una early career grant dall’American Epilepsy Society in supporto della mia attività di ricerca sui virus e infiammazione nell’epilessia pediatrica. Io mi occupo di “bench to bedside research”, cioè faccio esperimenti in laboratorio per studiare come comuni virus dell’età infantile come HHV-6 (sesta malattia) e EBV (mononucleosi) possano scatenare una risposta infiammatoria nel corpo dei bimbi e portare a convulsioni e in alcuni casi epilessia. Lo scopo ultimo della mia ricerca, che spero di vedere prima di andare in pensione, è trovare una terapia che agisca sul sistema immunitario e prevenga lo sviluppo dell’epilessia. Allo stesso tempo svolgo attività clinica e vedo pazienti complessi con epilessia refrattaria e li valuto per possibile chirurgia.
Contestualmente alla grant, sono stato inoltre nominato “Kevin Fellow”, un titolo onorario che viene dato dalla Epilepsy Foundation of America in collaborazione con una fondazione di famiglia, il cui figlio Kevin è morto di epilessia, ai candidati di premi di ricerca più promettenti per contribuire a gettare le fondamenta della carriera di giovani medici/scienziati. Per me è stato un momento commovente e ha rinforzato enormemente la mia motivazione di perseguire la mia attività clinica e di ricerca per migliorare la qualità di vita dei bimbi con l’epilessia”.
Laura: “Ricevere responsabilità e riconoscimenti accademici indipendentemente dalla mia età anagrafica, ma in base alle mie capacità”.
Quanto vi aiuta l’essere italiani lavorando in un contesto americano?
Luca: “Tantissimo. La capacita di adattamento e la flessibilità tipiche italiane sono valori unici che ti permettono davvero di spiccare in una società che per molti aspetti non devia dal seminato e conta sulla iper-organizzazione e a volte omologazione dell’individuo. Essere italiano per me vuole anche dire essere creativo, sia in ambito artistico (adoro fare street photography), ma soprattutto nella mia professione, che ritengo sia una vera e propria arte, e come tutte le arti si faccia con le mani, il cuore e il cervello”.
Laura Tantissimo. “Perché porto flessibilità, passione e buon cibo”.