“Ta ta tadada ta ta tadada….start spreading the news”… uscivano le note da un vecchio giradischi. Io le ascoltavo a ripetizione. Una volta con la voce di Frank Sinatra, altre con quella di Liza Minnelli. Perché quella era la canzone preferite dei miei genitori. Ho conosciuto New York così, affascinato da quel refrain, immaginando “the city that doesn’t sleep…”. L’ho conosciuta attraverso la voce di Frank Sinatra.
Ricordo la curiosità che quel cognome mi suscitò. Era italiano? Era americano? O cos’altro? Ben presto imparai che era un italoamericano, con o senza trattino. Oriundo, figlio di immigrati italiani della grande emigrazione postunitaria, Sinatra sarà la punta di diamante della seconda e terza generazione, quelle che diventano americane, ma mai abbastanza, quando ormai non sono più italiane.
A me, che poco o nulla sapevo sugli italiani d’America, perché nessuno ce lo ha insegnato a scuola, se non qualche breve riferimento in una paginetta accompagnata da foto che ritraevano “poveracci” con la valigia di cartone in partenza o in arrivo, quel cognome appariva come il segno dell’orgoglio, del riscatto, della rivincita.
Sinatra fu uno dei primi che conobbi, con la Minnelli, poi arrivarono altri grandi: De Niro, Al Pacino, Stallone, Dean Martin, Coppola, Capra, DiMaggio e tanti altri. Tutti straordinari rappresentanti di quel mondo italoamericano fatto di milioni di persone.
Sinatra nacque 100 anni fa’. Non volle mai cambiare il suo cognome, malgrado gli fosse stato ripetutamente richiesto. Si circondò di altri oriundi. Era profondamente newyorkese, americano, ma portava con se la sua Sicilia , e anche la Liguria. Raccontava attraverso la sua vita l’American Dream, da italoamericano, a milioni di italiani.
Ma come poteva essere il grande Frank Sinatra, the voice, un italo-americano. Come poteva essere un po’ un po’. Come a dire poco o niente. Un’espressione che ho imparato nel corso del tempo ad allontanare, perché invece di mettere insieme separa, allontana. E’ come vedere gli addendi di un’operazione matematica e non guardare al risultato. The Voice è stato il grande risultato di un incrocio culturale. Ha desemantizzato quel termine. Gli è andato oltre, aiutato anche dal suo grande successo, dovuto in primis dal dono di una grande voce.
Sinatra è stato un grande italico. E con questo intendiamo quella ricchezza che nasce dallo stare “tra” culture, che non diventano ostacolo, ma grande ricchezza, che si avvale della forza di chi guarda da punti di vista diversi. Quanto desiderio può nascere dal confronto della propria cultura d’origine familiare con quella prevalente del quotidiano. Quanto si è disposti a sopportare pur di farcela. Sinatra era un italico… e impariamolo ad usare questo termine oramai adottato anche dall’Accademia della Crusca… perché non era un po’ e po’ ma era qualcosa di più. Un incrocio di storie di vita, di visioni del mondo, di attitudini, che danno luogo a qualcosa di più importante della nazionalità. Lui poi lo era alla “sua maniera”.