Dicevano di lui fosse uno dei leader più potenti del dopoguerra. In effetti, con nove anni ai vertici del governo prima dal 2006 al 2007 e poi dal 2012 al 2020, Shinzo Abe è stato il più longevo primo ministro nella storia del Giappone, nonché il più giovane.
È stato ucciso questa mattina a Nara, con due colpi di pistola sparati durante un comizio in piena campagna elettorale. Aveva 67 anni. Da sempre un punto fermo del panorama politico giapponese, è stato leader del Partito Liberal Democratico di centro-destra che ha dominato la scena nipponica sin dalla sua fondazione nel 1955.
Un cognome, il suo, che in Giappone conoscevano tutti. In famiglia la politica era infatti una tradizione. Il nonno, Nobusuke Kishi, guidò la nazione dal 1957 al 1960 e anche il padre, Shintaro Abe, ricoprì la carica di segretario di gabinetto, considerata la seconda carica più potente del Paese.
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In tanti anni di attività, Abe cercò di trasformare una nazione vincolata da una costituzione pacifista in una potenza più assertiva e impegnata a livello internazionale. Famose le sue battaglie, pur concluse senza straordinari successi, per rivitalizzare la stagnante economia giapponese e ancor più famose le tante controversie, finanziarie e di comunicazione, che ne attraversarono l’operato.
I sondaggi, però, gli interessavano poco. “Ricoprire il ruolo di Primo Ministro stando troppo attenti all’indice di gradimento – diceva – è come lavorare sulle montagne russe. Ciò che è importante, credo, è che io agisca seguendo le promesse che ho fatto e che lasci risultati concreti. Voglio lasciare in mano ai giapponesi un curriculum corposo che, spero, alla fine venga apprezzato”.
Per far tornare grande il Giappone adottò politiche economiche perseguite e presentate come “terapia d’urto” per dare nuova linfa al mercato del lavoro. Erano le “Abenomics”, così le chiamavano tutti, anche se lui stesso non si spiegava chi avesse coniato il termine. La strategia prevedeva una combinazione tra allentamento monetario e aumento della spesa pubblica: una ricetta chiamata “delle tre facce” sulla quale ancora oggi, a distanza di anni, si continua a discutere.
In politica estera fu un grande alleato degli Stati Uniti, paese in cui si trasferì giovanissimo per studiare alla University of Southern California, dopo una prima laurea in scienze politiche conseguita a Musashino. Diffidando sempre della Cina, ha sviluppato anche stretti legami con l’India, sostenendo il quadrilatero informale tra Giappone, India, Australia e Stati Uniti. È stato uno dei maggiori critici ddella crescente aggressività di Pechino nella regione indo-pacifica, esortando più volte gli Stati Uniti ad abbandonare la loro politica di ambiguità strategica nei confronti di Taiwan e impegnarsi a difendere l’isola autonoma in caso di attacco cinese.

Grande amico di Donald Trump, è stato stato il primo leader straniero a incontrarlo dopo le elezioni del 2016, stendendogli poi un lungo tappeto rosso durante la sua visita di Stato in Giappone nel 2019. Trump, con il Paese del Sol Levante, strinse un rapporto di stretta amicizia e fu il primo leader straniero a incontrare il nuovo imperatore Naruhito, prendendo posto a bordo ring al primo torneo di sumo della nuova era imperiale, con il vincitore che ha ricevuto una “Coppa Trump” appositamente realizzata.
Da tempo aveva l’ambizione di modificare la Costituzione giapponese e vedeva nell’articolo 9, che rinuncia alla guerra e proibisce la costruzione di un esercito, un ostacolo all’assunzione da parte di Tokyo di un ruolo degno di una potenza nazionale.
“Ho imparato che essere un politico non è un lavoro facile – disse durante un comizio – Mio padre cercò di fare progressi nel trattato di pace con l’Unione Sovietica: all’epoca soffriva di un cancro all’ultimo stadio, ma si recò comunque a Mosca nel freddo più pungente. Ho imparato da lui che può essere necessario rischiare la propria vita per raggiungere un risultato storico”.
Mai parole furono più azzeccate.