È ormai diffusa a tutti i livelli una sorta di moda forcaiola a livello macroscopicamente anacronistico e stupidamente irrazionale. Si mettono sotto processo personaggi storici che rispecchiavano ai loro tempi le leggi e i costumi comuni a tutti gli Stati e si intendono giudicare e processare con i moderni standard di civilizzazione e con normative odierne, praticate dagli Stati giudicanti. Perciò si appronta in streaming un’aula giudiziaria con scranni e popolo, giudici togati, pubblici ministeri ed avvocati. Così si elencano i crimini di Napoleone in camicia e manette, dalla strage delle Piramidi alle vittorie su Horatio Nelson che appare claudicante accusatore, ad Austerlitz e Jena, si omette Waterloo. Da noi ha grande successo il processo a Catilina, pure in pepli romani. La tragedia di questi processi storici che nulla hanno a che vedere con la realtà e i costumi diffusi di tutti i popoli in quel lasso sincronico sta nel fatto che servono a distrarre l’opinione pubblica dagli orrori delle guerre odierne, dalle stragi e dai genocidi ormai normalizzati. In quella che è la pressante infodemia con gli assillanti talk-show che servono a spalmare sulle coscienze dei governati il concetto del “soft power” fino a camuffare un razzismo ormai saldamente sistemico. Questa è ormai la società della mistificazione permanente. Ci si appella a diritti civili universali che molti stati cosiddetti civili e democratici non rispettano (vedi pena di morte, torture, genocidi di stati democratici) o si applicano solo a personaggi che vissero in altro contesto storico generale.
D’altronde il processo e la condanna, fino alla morte, dei governanti vinti, ha precedenti recenti con i due esili inflitti a Napoleone, un imperatore francese, e con il processo di Norimberga da parte di giudici di nazioni vincitrici, oggi con il tribunale internazionale dell’Aia. Le condanne dell’ONU di qualche nazione genocida restano platonici appelli che non permettono più interventi risolutori. Nessuno allora mise in discussione i bombardamenti a tappeto, come a Dresda, o il genocidio della bomba atomica. Nelle altre società fino all’Ottocento la condanna di un sovrano consisteva nella sua sconfitta in campo di battaglia, non in una giustizia sommaria ed unilaterale da parte del vincitore. Gli eserciti si schieravano con divise diverse su un campo di grano e così si risolvevano i conti senza coinvolgere donne, bambini e vecchi innocenti in città densamente abitate.
Questo a difesa di Cristoforo Colombo, come se storicamente ce ne fosse bisogno. Come lui e peggio di lui agirono gli altri conquistatori del nuovo mondo, penso ai conquistadores spietati e avidi massacratori e al loro supporto dei domenicani, al genocidio degli Incas e degli Aztechi, penso a Cortés e al Massacro del Grande Tempio, al regno dei Montezuma. Non di meglio toccò a tante colonie decimate del mondo, dall’America tutta, all’India, alla desertificata Australia, che si mantengono ancora con la finzione giuridica del Commonwealth dietro un regime di esproprio economico.

Quello che stupisce in questa condanna razziale di Colombo è il fatto che si vuole strumentalizzare un popolo che già è discriminato nella intitolazione della festività, Indigenous Peoples’ Day. Domanda? Cosa c’entra la data del 12 ottobre con questa nuova ricorrenza? È evidente che si tratta di un semplice sovrapposizione strumentale senza significato, né simbolico né storico. Cosa può realmente importare dei residui “nativi” all’americano medio che vive in difesa dei propri diritti e privilegi e perciò vota Trump e la destra repubblicana? Forse che ha mai pensato di condannare la mostruosità delle “riserve indiane” o ha mai ipotizzato di cancellarne la memoria, semplicemente di abolirle? Come mai in una federazione in cui l’indiano è ancora il “pellerossa” si inscena questo amore per un popolo, ridotto a poco più di un milione, esempio tipico e universale di genocidio perfetto, perpetrato lungo secoli di carneficine, celebrate come epica popolare e patriottica dall’orrenda ininterrotta filmografia dei Western?
Facciamo il punto su un po’ di storia recente. Intorno a questo odierno fervore di esaltazione delle virtù dei “nativi” nessuno certo mette in conto un atto di pentimento o una pubblica richiesta di perdono verso quei popoli trucidati e privati della propria terra e della propria casa. Eppure già nel 1792 la Tammany Society di New York e la Massachusetts Historical Society di Boston vollero celebrare il 300° Anniversario dello sbarco di Colombo. Un secolo dopo nel 400° Anniversario del 1892, in risposta ad un linciaggio razzista di 11 immigrati italiani a New Orleans il Presidente Benjamin Harrison dichiarò festa nazionale il Columbus Day, sia per risolvere le tensioni diplomatiche sia per esaltare i valori patriottici nazionali, che si concretizzarono nel Pledge of Allegiance di Francis Bellamy.

Il primo Columbus Day come festa nazionale e celebrazione del nostro patrimonio culturale si tenne a New York il 12 ottobre 1866 sostenuto dal lobbismo di Angelo Noce, un italiano di prima generazione, a Denver. Tralasciamo tutta la storia delle celebrazioni e delle conferme legislative nei singoli Stati e nell’Unione. Ricordiamo solo lo Statuto del Congresso del 1934 su iniziativa di Generoso Pope:
«The President is requested to issue each year a proclamation (1) designating October 12 as Columbus Day; (2) calling on United States Government officials to display the flag of the United States on all Government buildings on Columbus Day; and (3) inviting the people of the United States to observe Columbus Day, in schools and churches, or other suitable places, with appropriate ceremonies that express the public sentiment befitting the anniversary of the discovery of America.» (United States House of Representatives, April 30, 1934).
Nel 1939 il governatore della California Culbert Olson dichiarò il 1° ottobre “Indian Day”. Nel 1968 Ronald Reagan governatore firmò la risoluzione per l’American Indian Day, per il quarto venerdì di settembre, cosa che l’Assemblea della California approvò. La stessa data scelse il Nevada nel 1997. Lo stesso American Indian Day istituì il Tennessee nel 1994 per il quarto lunedì di settembre. Nello Stato di Washington il 2014 si istituì per il venerdì dopo il quarto giovedì di novembre il “Native American Heritage Day”, «to recognize and to honor Washington state’s proud and resonant Native American heritage». Come si vede erano date per nulla accostabili allo sbarco di Colombo con il quale non avevano nulla a che spartire.
Ma passiamo intorno agli anni Novanta del secolo scorso, quando si sentì l’esigenza di rendere omaggio ai tutti i popoli del cosmo immolati sull’altare del più criminale colonialismo con l’istituzione dell’Onu nel 1994 della “Giornata Internazionale delle Popolazioni Indigene del Mondo”, con cadenza annuale il 9 agosto. Nel 1995 il Canada istituì La Journée nationale des peuples autochtones per il 21 giugno, giorno del solstizio sacro per alcuni popoli originari dello Stato, per «non perdere l’occasione di riconoscere e approfondire la conoscenza della diversità culturale dei popoli First Nations, Inuit e Métis prendendo parte a eventi in tutto il Canada».
Di fronte a questa volontà nazionale storicamente diffusa nei secoli di riconoscere il valore storico della scoperta di Colombo intorno al XIX secolo sorse da parte di gruppi estremisti e si rinvigorì fino ai reazionari odierni il pretesto della difesa della identità oppressa dello schiavista Colombo, – mi si dimostri chi non lo fu in questo senso da Colombo in poi e non lo è ancora –. Perché sia chiaro che i tanto invocati “indigenous” sono un puro e semplice pretesto razzista. Basta risalire all’origine di questa condanna e al movimento anti-immigrant nativists che proclamarono i loro slogan per l’abolizione del Columbus Day:
…. because of its association with immigrants from the Catholic countries of Ireland and Italy, and the American Catholic fraternal organization, the Knights of Columbus. Some anti-Catholics, notably including the Ku Klux Klan and the Women of the Ku Klux Klan, opposed celebrations of Columbus or monuments about him because they thought that it increased Catholic influence in the United States, which was largely a Protestant country (Timothy Kubap, Cultural movements and collective memory: Christopher Columbus and the rewriting of the national origin myth. Macmillan. 2008, pp. 33–38).
Intorno a questo originario pretesto si innescarono sentimenti universali di ripulsa e di condanna del trattamento subito dalle popolazioni autoctone durante la colonizzazione europea in tutte le Americhe. L’American Indian Movement sostiene ancora, a nome degli “indigeni”, che i miti e le celebrazioni di Colombo servono a mascherare le gesta e le ingiustizie contro di loro e ancora in corso. Risibile comunque resta l’accusa direttamente nella persona di Colombo e la sua feroce iconoclastia, «while a brilliant mariner, exploited and enslaved the indigenous population» (University of California, Newsroom (October 6, 2004).”Repertorium Columbianum” Makes Landfall). Siamo al Colombo che impone la schiavitù, puro revisionismo storico con attualizzazione di un’esperienza storica. Era allora ancora inimmaginabile la redditizia e selvaggia tratta dei neri, operata in regime di monopolio, come “asiento”, fino al trattato di Aquisgrana del 1748.
Ancora bambino davanti alla porta coperta dal tricolore italiano mi apparve la gip con baldi soldati, una frusta e le caramelle, forse consanguinei di don Corleone, venuti a liberarci e rimasti fino ad ora in pianta stabile con basi missilistiche e atomiche. Da quel giorno per decenni fummo colonizzati con migliaia di film western, quelli dei buoni sceriffi e cow-boy, delle stupide squaw e dei “pellerossa” tagliatori di scalpi (il trofeo del cuoio capelluto portato come da noi un tempo le code dei lupi a prova della loro uccisione). Siamo giunti a confezionarli in casa, i western all’italiana o spaghetti western, tanto ce ne innamorammo, dalla celebre trilogia del dollaro di Sergio Leone e il mito di Clint Eastwood, fino al capolavoro C’era una volta il West (1968) con Henry Fonda e la Claudia Cardinale nel suo splendore. Ultima beffa anticonformista Quentin Tarantino con la serie Kill Bill e infine Django Unchained del 2012.
In memoria di questa saga encomiastica e beatificante del buon “viso pallido” che ha nutrito la mia infanzia fino all’età matura, a quel probabile milione e mezzo di “autoctoni” che sono sopravvissuti e sparsi in 300 riserve federali e 21 statali, da quelli che non sanno abbandonarle – oggi noi le usiamo per i parchi zoologici – e a quei pochissimi che hanno raggiunto alti gradi nella società fra tante date e celebrazioni che hanno imposto i wasp per celebrare la vostra identità voglio proporre per celebrare l’Autochthonic Day un giorno per voi glorioso, l’unico riconosciuto fra tutti i giorni ed esecrato dalla filmografia, il 25 giugno, anniversario della vostra epopea della Little Bighorn Battle del 1876, quando le forze coalizzate di Lakota (Sioux), Cheyenne e Arapaho annientarono cinque delle dodici compagnie comandate dal feroce sterminatore semplice tenente e non generale George Armstrong Custer. Fu quello sempre esaltato soltanto perché si pose al servizio degli unionisti nella guerra di secessione e ce lo hanno sempre ammannito come uno sfortunato eroe. Durante la campagna contro i Cheyenne del generale Winfield Hancock del 1867 usò la pena di morte contro i disertori, ma fu assolto in processo dalle gravi accuse dalla Corte marziale. Fu il vostro mitico Sitting Bull della tribù Sioux Hunkpapa che con orgoglio disse alla resa:
«La terra che ho sotto i piedi è ancora mia. Non l’ho mai ceduta o venduta a nessuno, se ho lasciato le Paha Sapa cinque anni fa, fu perché desideravo tirare su la mia famiglia in tranquillità. È la legge della Gran Madre che tutto sia in pace nel suo territorio […] scrivete che sono stato l’ultimo della mia gente a deporre il fucile.».
Non vi incoraggio ad aderire alla Change.org per abbattere la sua statua equestre che da cento anni fa mostra di lui baldanzoso a Monroe City nel Michigan, città della moglie, né di associarvi a queste iconoclastie. Giustamente non tutta la città si identifica con la sua ferocia. Io mi associo a qualcun altro che propone di spostare la statua in altro sito o semplicemente di collocarla in un Museo, come tutte le statue storiche contestate.
Sono fermamente contrario all’abbattimento di statue, siano esse del falsamente accusato Saddam sia di feroci dittatori, o allo scalpellare epigrafi, convinto che esse restano segni inequivocabili della storia e come tali possano servire come simboli, per ammonirci ed insegnarci quello che non è giusto ed etico ed umano fare. Documenti del passato per un futuro migliore.