Sguardo vivace, voce potente, capelli ancora abbondanti, barba corta e ben rasata, abiti con un tocco di informalita’. Mario Fiorentini, “il parigiano più decorato dell’Italia”, come gli piace ricordare, ci riceve nel suo studio, circondato dai libri, con Kierkegaard a portata di mano, alcune foto e pochi ma pregiati mobili.
Al mio arrivo ha appena finito una lunga registrazione televisiva ma non è stanco. Comodamente seduto accanto la finestra, la luce del mezzogiorno primaverile illumina il suo viso e suoi occhi azzurri quando mi saluta sorridente e mi prende la mano. La sua memoria, i suoi gesti, l’accuratezza per raccontare e i suoi “No” quando la domanda esce dal percorso degli eventi, non dimostrano nè la sua età nè le innumerevoli difficoltà che ha trovato durante i suoi fecondi cent’anni, festeggiati cinque mesi fa.
Mario, “Giovanni”, “Gandi”, “Fringuello” o “Dino”, i suoi nomi di battaglia ai tempi della Resistenza, è nato a Roma il 7 novembre 1918, di madre cattolica e padre ebreo, due persone che amavano la vita e la cultura e che segnarono i suoi “cent’anni dalla parte giusta”. Mario ama parlare, spiegare, ironizzare. Lo conosco da una ventina d’anni, da quando un giovane amico, Lorenzo Teodonio, fisico di professione ma storico per vocazione, stava scrivendo “Razza Partigiana, storia di Giorgio Marincola 1923-1945”. Con Fiorentini, decorato con tre medaglie d’argento al valore militare e tre croci al merito di guerra, naturalmente si parla delle scelte, dei rischi della lotta, delle azioni compiute.
“Più pacifista di me non lo troverete. Il destino ci trascinò, non potevamo rimanere fuori”, spiega. E subito dopo un energico “Ma che!” risponde quando gli domando se si è pentito di avere preso la strada della resistenza. Nonostante la sua educazione laica, nel 1938 la promulgazione delle leggi razziali e le persecuzioni contro gli ebrei approfondirono la sua coscienza antifascista e chiese “al rabbino capo di Roma” di diventare ebreo come suo padre.
“Ho desistito perché lui mi ha fatto sapere che non ero circonciso. Quindi mi ha salvato dalle deportazioni”. Poi i suoi genitori sono stati catturati dalle SS e si sono salvati grazie alla forza di spirito della mamma che, urlando che era cattolica, ha convinto i carnefici di rilasciare lei e il marito.
“Dopo l’8 settembre del 1943, tutto é diventato urgente. Agire era urgente. Abbiamo organizzato il gruppo Arditi del Popolo per salvare l’Italia dal fascismo. Abbiamo fatto una marcia in centro. Lucia era al mio fianco. Era l’unica donna. Non portavamo armi”, spiega. E aggiunge: “non abbiamo esitato a combattere per salvare il nostro Paese e noi stessi”.
Sotto l’occupazione Mario è stato membro dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP), operanti a Roma, e poi è diventato comandante del GAP Centrale Antonio Gramsci. Con lui, sempre “mano nella mano”, c’era Lucia Ottobrini (1924-2015), “la mia Lucia, mia moglie, anche lei medaglia d’argento al valore militare”, precisa Fiorentini e non risparmia lode sul coraggio di lei.
Dopo la liberazione di Roma, Fiorentini fu mandato al comando della missione “Dingo” dell’ Office of Strategic Services (OSS) americano per operare nel Nord d’Italia. “Sono l’uomo dei quattro nomi e anche l’uomo dei quattro carceri dove sono stato detenuto, sono un avanzo di galera”, ironizza Mario e mi racconta la sua fuga dal carcere di San Vittore. “Mi sono buttato da una finestra del quinto piano. Dovevo cadere con la punta dei piedi e l’ho fatto”, dice.
Mario ricorda tutte le sue azioni, tra queste una bomba lanciata durante il cambio di guardia contro i tedeschi davanti al carcere di Regina Coeli e la sua fuga in bicicletta sotto “una pioggia di proiettili”. “Sono stato anche l’ideatore dell’azione di via Rasella, ma non ne ho partecipato. Neanche Lucia ha partecipato perchè era a letto, con la febbre”, sottolinea.
Dopo quella azione del 23 marzo del 44, compiuta nel suo quartiere, all’angolo dell’ appartamento dove abita ancora, Mario e Lucia lasciarono la città per proseguire la resistenza “Tra Tivoli e Castel Madama”. Via Rasella provocò la morte di 33 soldati del reggimento Bozen, e la fucilazione in rappresaglia di 335 italiani, trucidati poche ore dopo alle Fosse Ardeatine, alle porte di Roma. I responsabili tedeschi sono stati il colonnello Herbert Kappler e l’agente della Gestapo e capitano delle SS Erich Priebke.
E a questo punto le tragedie e i mondi si incrociano, perchè dopo la guerra Priebke, come hanno fatto molti tedeschi, nel mese di dicembre del 1948 si è nascosto in Argentina, a San Carlos di Bariloche, nella lontana Patagonia e ai piedi delle Ande, 1750 km al sudovest di Buenos Aires.
È stato scoperto, riconosciuto e istradato a Roma nel 1995, dove è stato condannato all’ergastolo per aver partecipato a pianificare e commettere l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Nel 1943, a Roma, Priebke era sotto il comando di Herbert Kappler. Oltre a partecipare alle fucilazioni, il capitano ha preparato la lista delle vittime.
Mai pentito, in una intervista pubblicata da La Repubblica, Priebke dichiarò: “Sì, alle Fosse Ardeatine ho ucciso. Ho sparato, era un’ordine (…) Ero un ufficiale, mica un contabile (…) Fucilammo cinque uomini in più. Uno sbaglio, ma tanto erano tutti terroristi, non era un gran danno”. E c’è pure una macabra coincidenza di date che ogni anno sanguina ancora da una sponda all’altra dell’ Atlantico: il 24 di marzo 1944, le Fosse Ardeatine e il 24 di marzo 1976, il colpo militare che ha fatto 30.000 desaparecidos in Argentina.
Ma Mario non è soltanto il partigiano e l’agente segreto, è fondamentalmente un uomo innamorato della cultura e da giovanissimo frequentava gli ambienti di teatro, di musica e di arte. Vittorio Gassman, Renato Guttuso, Vasco Pratolini, Luchino Visconti erano tra i suoi amici.
Con Fiorentini in prima fila gli artisti contestarono il sindacato fascista,”che aveva un teatrino e lo abbiamo occupato. Volevo far cantare a Gassman ‘L‘internazionale’ ma con maggiore prudenza ha recitato Cecov”, evoca. “Vi voglio invitare a non mollare lo studio. Io ho sempre avuto molto desiderio di sapere di più, di arricchire la mia cultura”, ci dice Mario e ci mostra il suo ultimo libro, “Zero, uno infinito, divertimenti per la mente”, scritto in collaborazione con Ennio Peres e pubblicato a novembre del 2018 dalla Iacobelli editore, in occasione del suo centesimo compleanno.
Diplomato e laureato in Matematica con grande sforzo dopo la guerra, nella premessa di questo libro Mario spiega la sua passione per l’insegnamento ai ragazzi dai nove ai dodici anni. “Parlando dei numeri introducevo lo zero e ne spiegavo l’importanza. Ai bambini dicevo che e’ un numero unico perchè è l’unico numero che non numera, che è il cardinale dell’insieme vuoto e anche il gemello dell’ infinito”, si emoziona.
Ascoltare Mario è una lezione di vita, non soltanto per quanto racconta ma per il suo modo di guardare gli essere umani e gli eventi che li riguardano. “Vi auguro di vivere con gioia”, riflette Mario, che si definisce come “una persona normale, trascinata dagli eventi” della Seconda Guerra Mondiale.
Sempre polemico, Mario dice che in montagna i partigiani non cantavano “Bella Ciao” e che “Fischia il vento” è più rappresentativa. Poi finisce con un messaggio forte: “Ho rischiato la morte per consegnare vivo Benito Mussolini agli americani, per fare un processo e condannarlo all’ergastolo. Purtroppo non l’ho potuto fare”.