La letteratura è un territorio per il quale ancora si combattono battaglie feroci, anche tra lettori. Battaglie peraltro sane e vitali, quando non sono stupidamente ideologiche ma mosse dalla passione per il valore che si attribuisce alla qualità della scrittura.
In questi ultimi anni, quando in autunno si avvicina il momento dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura, comincia a serpeggiare sui mass-media (e tra i lettori) l’interrogativo ‘ma almeno quest’anno lo daranno a Philip Roth?’. No, neanche in questo 2015, il premio è stato assegnato a questo scrittore monumentale, nato a Newark in una famiglia ebraica nel 1933 (ottantadue anni compiuti), l’autore di American Pastoral (Pastorale americana, premio Pulitzer 1998), Portnoy’s Complaint (Il lamento di Portnoy), The Human Stain (La macchia umana), The Anatomy Lesson (La lezione di anatomia), The Dying Animal (L’animale morente), che sembra avere tutti i requisiti per incarnare la letteratura stessa. Inevitabilmente, il passo successivo è chiedersi perché no (senza nulla togliere a chi è stato prescelto).
In primo luogo a Roth tocca portare come zavorra l’ingombrante fama di romanziere che scrive di sesso, solo di sesso, esplicitamente e in modo maschilista (originariamente legata allo scandalo di Portnoy, del 1969). E se a questo si aggiunge la confusione, per ingenuità o in mala fede (a seconda dei casi), dell’io letterario dell’autore con il suo io biografico di uomo, se non addirittura tra scrittore e personaggi, il risultato è disastroso. Per cercare di fare assoluta chiarezza tra questi diversi piani, Roth si è anche cimentato in uno sforzo titanico che ha prodotto The Facts: A Novelist's Autobiography (I fatti. Autobiografia di un romanziere,1988), in cui, attraverso l’esercizio di una temeraria onestà intellettuale, ha provato a dipanare il mistero per cui il materiale autobiografico e l’esperienza esistenziale di un singolo individuo si trasformano attraverso la scrittura in qualcosa di universale e umanamente condivisibile, in qualcosa di diverso e distinto: in letteratura.
Non si fa fatica a immaginare la stanchezza di questo grande autore, quando si pensa alla profondità del suo sguardo – appunto per questo anche demistificante – sulla realtà, alla sua straordinaria capacità di sondare la condizione umana in tutte le sue implicazioni e alla ricchezza dei temi affrontati negli oltre trenta libri scritti: oltre alla sessualità, che peraltro è costitutivamente al centro della nostra umanità, la centralità del rapporto con i genitori per tutta la vita, la costruzione della propria identità, il tema del lavoro, il dolore, la gestione dell’imponderabile e dell’inatteso (non si è mai preparati alla vita), il rapporto con il tempo che passa inesorabile, le trasformazioni che invecchiare comporta, la consuetudine terribile con il pensiero della morte che si avvicina e la straziante pietas che ci unisce in tutto ciò, in quanto esseri umani.
Roth, che ha fama di non amare il brusio mediatico, ha più volte dichiarato di trovare irritanti i ricorrenti commenti e le polemiche sul suo mancato Nobel. Malgrado questa certezza, che potrebbe scoraggiarci, ne parliamo con Livia Manera, giornalista letteraria de Il Corriere della Sera, esperta di letteratura anglo-americana che intrattiene da anni con lo scrittore, proverbialmente difficile da avvicinare, un rapporto privilegiato di consuetudine, grazie al quale ha potuto tra l’altro realizzare due documentari su di lui, oltre ad intervistarlo parecchie volte. Fino a diventare una sua cara amica e confidente e a sentirsi per questo a un certo punto intimare da lui “Non scrivere di me!” (“You'll never write about me again!”). Questo ordine puntualmente disatteso è poi diventato il titolo del libro in cui Manera racconta il suo incontro con alcuni protagonisti della letteratura anglo-americana, pubblicato da Feltrinelli ad aprile: insieme a Roth (il cui profilo è apparso in inglese sul Believer pochi mesi prima), tra le pagine del libro, incontriamo Mavis Gallant, Judith Thurman, David Foster Wallace, Joseph Mitchell, Richard Ford, James Purdy e Paula Fox.
Anche quest’anno il Nobel non è andato a Philip Roth. Come mai non arriva questo riconoscimento a uno dei più grandi scrittori del XX-XXI secolo? C’entra la sua fama di scrittore non politicamente corretto? Roth è stato addirittura accusato di misoginia. Certi pregiudizi si incrostano sulla reputazione di uno scrittore e poi sono molto difficili da scalfire.
“Penso ci siano diversi ordini di motivi. Il Nobel tende a essere dato a scrittori di grande qualità, ma meno conosciuti nel mondo, per dare loro una maggiore visibilità. Mentre Roth ha già una grande visibilità. Ci sono anche voci di corridoio, però impossibili da verificare, per cui all’interno dell’Accademia di Svezia ci sarebbe un’opposizione insuperabile dovuta proprio alla presunta misoginia di Roth. Ma va detto anche che c’è una certa reticenza a premiare un americano, che scrive in inglese, in quanto la cultura americana è considerata già “dominante” e quindi non avrebbe particolare bisogno di essere lanciata o aiutata da un Nobel per la letteratura. Diverso è il caso ad esempio di Toni Morrison, grande scrittrice statunitense che con la sua opera si fa portavoce autorevole delle istanze, anche civili e politiche, della cultura afro-americana”.
Il Nobel alla letteratura non dovrebbe essere il riconoscimento per eccellenza della qualità della scrittura letteraria a prescindere da ogni altra considerazione relativa ad altri ambiti, compresa la lingua in cui si scrive? Non dovrebbe valutare esclusivamente il contributo dato da uno scrittore alla letteratura?
“In realtà l’assegnazione del Nobel per la letteratura indica molto bene un clima culturale. Peraltro è vero che Roth ha dovuto lottare faticosamente tutta la vita contro una certa immagine che si è trovato appiccicato addosso. Ai tempi del Lamento di Portnoy è stato addirittura perseguitato, veniva riconosciuto e apostrofato per strada, ovunque. Ed è veramente stufo di tutto questo, adesso”.
È proprio vero che Roth non scrive più? Neanche per se stesso?
“È vero che non scrive più. Penso che decidere di smettere sia stata una vera liberazione e del resto lui me lo ha detto varie volte. L’esempio di Saul Bellow, che non ha saputo smettere e oltre gli ottant’anni ha scritto un libro molto al di sotto del suo livello come Ravelstein deve essergli stato di monito. Però è possibile che dopo avere detto di avere smesso di scrivere fiction, abbia scritto degli appunti per sé e per il suo biografo. Non mi stupirebbe affatto. È un uomo che ama avere il controllo delle cose. E c’è una biografia in corso d’opera”.
Il tuo ritratto di Roth in Non scrivere di me è anche il racconto coraggioso di come il vostro rapporto si è sviluppato negli anni e culmina nella frase a dir poco preziosa con cui chiudi il volume: la sua dichiarazione che avreste dovuto incontrarvi venticinque anni prima, perché questo avrebbe cambiato le vostre vite.
“Ho scritto e riscritto sei finali diversi prima di capire cosa avrei fatto. Non è stato affatto facile decidere di pubblicarla. È stato mio figlio a incoraggiarmi a non essere reticente, ad essere coerente fino in fondo con l’impostazione del libro, trattando con la stessa onestà gli scrittori oggetto del mio lavoro e me stessa”.
Tutto il libro sembra animato dall'indagine sulla genesi della scrittura, ovvero su cosa ha reso quel particolare individuo con una precisa storia (quasi sempre difficile e dolorosa) uno scrittore, aldilà dell’eterogeneità degli autori di cui parli.
“È uno dei temi che mi stanno più a cuore nel mio lavoro, una delle domande fondamentali. Anche per questo la forma del libro è necessariamente ibrida, non è una raccolta di interviste a scrittori, né un volume di critica letteraria secondo schemi più tradizionali. E ho dovuto mettermi in gioco personalmente e dire cose di me per poter raccontare di loro in questo modo”.
In tanti anni di lavoro, hai conosciuto moltissimi autori. Come hai scelto quelli di cui parlare?
“In base alle loro storie. Storie particolari e anche molto diverse tra loro che volevo raccontare. Assolutamente niente a che fare con la loro fama”.
“Nel libro scopriamo tra l’altro la virile bellezza di Richard Ford e la generosità del suo amico Carver, facciamo la conoscenza di una Mavis Gallant molto femminile e ostinata a resistere alle avversità, troviamo James Purdy quasi sepolto vivo a Brooklyn Heights nella sua integrità che rasenta l’assoluto, rivediamo New York con gli occhi di Philip Roth, siamo ammessi nell’intimità delle sue case e sperimentiamo le sue spossanti sfide dialettiche. E incontriamo uno straziato Edgar Foster Wallace in un McDonald's nella stazione di servizio di un’autostrada a due ore da Chicago.
“Ho trascritto con assoluta fedeltà la nostra conversazione, ogni passaggio. Wallace era profondamente sofferente, di una sofferenza patologica e molto evidente. Un disagio reso palese anche dalla scelta del luogo dell’incontro. Dopo il suo suicidio non sono mai più riuscita a rileggere i suoi libri. Purdy era un signore cortese veramente decrepito, la cui decadenza era incredibilmente in contrasto con la bellezza fiabesca di Brooklyn Heights quel giorno sotto la neve”.
C’è un autore americano che non hai ancora avuto occasione di intervistare e che vorresti conoscere?
“Tra i più affermati Don De Lillo. Tra i giovani ce ne sono senz’altro molti interessanti”.
Considerando la straordinaria pluralità e varietà di voci individuali, che costituiscono la letteratura americana, pensi esista qualcosa che possiamo chiamare “americanità”? Come la definiresti?
“Sì, io credo che esista. È la cosa che mi emoziona di più quando la incontro nello stile: il modo in cui ogni scrittore, essendo immigrato – di prima o seconda generazione – ha contaminato la lingua inglese in cui scrive con la sua lingua e la sua cultura di origine, riuscendo ad arricchirla. In alcuni casi si sente soprattutto nel lessico, ma in altri addirittura in uno scardinamento della sintassi che riproduce il movimento di un’altra lingua. Penso in particolare a Aleksandar Hemon, di origine bosniaca, a Junot Diaz, nato a Santo Domingo, e a Netherland di Joseph O’Neill, irlandese vissuto per anni in Olanda e poi laureatosi in legge a Cambridge”.