In questa fine d’anno, i profeti di sventure per il 2016 si accalcano sui giornali e sulla rete. Fra questi, l’agenzia Bloomberg, che immagina per il prossimo anno nuovi successi dell’ISIS, il Brexit, l’attacco di Israele all’Iran, l’impennata dei prezzi del petrolio, una crisi sociale e politica in Cina, la disgregazione dell’Europa e, come se non bastasse, la vittoria di Donald Trump alle elezioni di novembre.
Allo stato attuale delle cose, nessuna di queste ipotesi sembra particolarmente probabile, anche se, in politica e in economia, certe situazioni finiscono out of control con una rapidità inimmaginabile. Quindi: tutto è possibile, ma niente è probabile.
Una delle profezie di Bloomberg, però, pare particolarmente infondata: quella secondo cui «Putin sidelines America». Secondo l’agenzia di New York, Putin avrebbe intenzione di raggirare («outfox») Obama allo scopo di riportare stabilmente la Russia in Medio Oriente. L’infondatezza di questa previsione non sta certo nell’idea che i russi vogliano stabilirsi di nuovo in pianta stabile nella regione, quanto che lo facciano ingannando gli Stati Uniti.
In molti commenti sul “ritorno” dei russi in Siria, sulle tensioni con la Turchia, e quindi con la NATO, e quindi sui rischi di un nuovo conflitto tra Russia e Stati Uniti, sono prevalsi argomenti da “guerra fredda”, che erano sbagliati all’epoca della guerra fredda, e che lo sono a maggior ragione oggi.
Questi argomenti si basano su tre presupposti fallaci: 1) la sopravvalutazione della Russia; 2) la convinzione che la Russia e gli Stati Uniti abbiano sempre interessi opposti; 3) la convinzione che la Russia sia il “nemico ereditario” degli Stati Uniti, e viceversa.
In realtà, la Russia non è mai stata una potenza in grado di rivaleggiare da pari a pari con gli Stati Uniti. Priva di sbocchi sul mare accessibili tutto l’anno, essa manca di una delle condizioni fondamentali per diventare una grande potenza, sia dal punto di vista economico che politico e militare. Tutte le preoccupazioni strategiche dei suoi avversari – i britannici nell’Ottocento e poi gli americani nel Novecento – riguardavano la possibilità che una grande potenza industriale (leggasi Germania o Giappone) potesse allearsi con (o conquistare) l’enorme territorio russo, la sua numerosa manodopera a buon mercato e le sue immense riserve di materie prime, e dar vita ad una vera e temibile rivale per la supremazia mondiale. Non a caso, la geopolitica tedesca tra le due guerre contava proprio sull’alleanza (Karl Haushofer) o sulla conquista (il nazismo mainstream) della Russia per ribaltare i rapporti di forza a livello mondiale.
L’obiettivo principale degli Stati Uniti è sempre stato quello di evitare un aggancio tra Russia e Germania, o tra Russia e Giappone. Ma i veri avversari, quindi potenzialmente più temibili, erano la Germania e il Giappone, non la Russia. Per questo, durante la “guerra fredda” gli Stati Uniti hanno concluso un’alleanza di fatto con la Russia per dividere l’Europa e privarla definitivamente delle sue colonie, e hanno fatto la guerra ai russi in Asia per tenere Mosca lontana da Tokyo. L’atteggiamento di Washington rispetto alla Russia non riguarda mai direttamente la Russia stessa, quanto i rapporti che gli Stati Uniti hanno con i loro veri rivali, quelli potenzialmente più temibili.
Oggi, Washington mostra i denti a Mosca sull’Ucraina, ma è pronta all’accordo con Mosca sulla Siria. In Ucraina, si tratta di evitare che il rapporto tra Europa e Russia possa diventare troppo diretto; in Siria, si tratta di mostrare alla Russia che i suoi interessi vitali sono benevolmente presi in considerazione, ma, al tempo stesso, si tratta di usare gli interessi russi come contrappeso ad un eventuale ritorno di ambizioni europee nella regione, oltre che come contrappeso ad “alleati” locali indisciplinati e recalcitranti (Turchia, Israele, Arabia Saudita).
Insomma: sull’Ucraina, l’interesse principale di Washington (mantenere le distanze tra Russia e Europa) confligge con quello di Mosca; in Siria, invece, tende a coincidere con quello di Mosca.
In ogni caso, non è nell’interesse degli Stati Uniti di inimicarsi la Russia. Proprio perché le relazioni internazionali non sono mai bilaterali: immaginare la politica internazionale come imperniata su una relazione a due è come immaginare una partita a scacchi in cui si muovano solo le regine. Oggi, i rivali più temibili di Washington non sono più solo a Berlino e a Tokyo, ma anche, e soprattutto, a Pechino; e forse, domani, a New Delhi, a Giacarta, a Brasilia e così via. Se la “carta russa” è stata utile agli Stati Uniti durante la guerra fredda, a maggior ragione lo può essere oggi.
Per questo, gli Stati Uniti devono sempre lasciare dei margini d’azione a Mosca, anche a costo di rimetterci qualcosa. La mini-repubblica di Assad, ridotta ad una striminzita fascia costiera collegata a Damasco (in rosa nella carta), è sicuramente un sacrificio sostenibile, e forse, per certi versi, perfino auspicabile.