Cosa spinge gli italiani delle ultime decadi a partire? Quali sono le loro aspettative, poi l’impatto con la realtà americana? E qual è stata l’esperienza dell’autrice con New York e con una delle più importanti penne del giornalismo italiano, Oriana Fallaci? A queste e altre domande risponde in questa intervista Elena Attala-Perazzini, scrittrice e già assistente della Fallaci a New York.

Elena Attala-Perazzini con Mario Fratti, uno dei personaggi intervistati nel libro
L'occasione è stata la prima presentazione newyorchese, il 23 novembre 2014, alla Anton Kern Gallery dei suoi due libri The Writer's Assistant (uscito in italiano nel 2011 con il titolo La segretaria dello scrittore e di recente ripubblicato come I miei giorni con Oriana Fallaci) e Via da Noi. Successi e abbagli di italiani che hanno scelto l'America, uscito in Italia nel 2013. Mentre il primo libro è un racconto dell'esperienza autobiografica dell'autrice come assistente della geniale quanto intrattabile Oriana Fallaci, il secondo è una raccolta di storie di italiani di varie generazioni che hanno scelto l'America, quella delle grandi città o quella di luoghi remoti e decisamente americani. Costruito attraverso una serie di interviste, il libro è una narrazione che mescola verità e fiction per costruire un racconto a più voci. Tra i personaggi che incontriamo in questo racconto corale anche alcuni nomi noti della comunità italiana a New York, tra cui il drammaturgo e nostro columnist Mario Fratti.
Nella prestigiosa galleria di Chelsea, una cornice unica ha fatto da sfondo all'evento e alla nostra intervista: 150 disegni a inchiostro e matita di Andy Warhol, eseguiti tra gli anni '40 e '60 e mai esposti prima, in cui si evidenziano le basi per lo sviluppo della tecnica della Pop Art.
Questo libro racconta le storie della recente immigrazione italiana negli USA. Come mail il titolo Via da noi?
Questo libro avrebbe potuto intitolarsi “Sogniamo ancora l’America”, perché il propulsore di tutte le storie è un sogno che non tramonta, inspiegabilmente. Il sogno americano continua a essere vivido nell’immaginario di ogni europeo, quasi anacronisticamente, dato che l’America oggi è un Paese in forte crisi, come tutti i Paesi occidentali. Ma questo Sogno ha a che fare non solo col desiderio di realizzazione e l’identificazione in ciò che la società riconosce come traguardo, ma col desiderio di superamento, di sfida con sé stessi, e la non rassegnazione. Ecco perché la mia dedica: “Agli incontentabili e sradicati, alla ricerca di un sogno, alla ricerca di nuove radici in un luogo che non ne ha”. È un Sogno spesso alimentato dal desiderio di rivoluzione interiore che innanzitutto chiede di non lasciarsi succedere gli eventi, non lasciarsi scivolare addosso la vita. Solo alla fine del lavoro, il titolo è diventato Via da noi, perché la risposta di tutti gli intervistati alla domanda "da cosa ve ne siete andati?", è stata: "Siamo andati via da noi italiani, dalla nostra mentalità, da un sistema a cui non apparteniamo. Quasi tutti hanno lasciato l’Italia con la consapevolezza di abbandonare un Paese meraviglioso sotto molti aspetti".
A quali altre domande cercavi risposta?
Volevo rispondere a me stessa, come fanno tutti gli scrittori, e poi a chi mi chiede come mai abbiamo lasciato il Paese in cui gli americani vorrebbero andare a vivere. Cercavo una risposta anche da tutti quelli che non avevano alcuna necessità di partire, come invece era successo agli immigrati dei primi del Novecento, quelli come me, e quelli che continuano ad avere un rapporto conflittuale con la propria scelta. Ma volevo anche dar voce a chi ha trovato nella partenza una via d’uscita a situazioni insostenibili e negli Stati Uniti ha incontrato le opportunità che cercava.
E la risposta di questi ultimi quale è stata?
Oggi molte persone di successo si trovano a vivere in una terra in cui si identificano dal punto di vista della mentalità imprenditoriale e vincente, a volte per il sistema politico, ma a cui sanno di non potere mai appartenere fino in fondo.
Questo libro è una miscela ben bilanciata di lavoro giornalistico e narrativo. Come l'hai raggiunta?
È stato molto più difficile dei mie libri precedenti che erano romanzi. Dal punto di vista della scrittura, ho inventato scene, a volte personaggi, per far sì che la storia funzionasse, ho dovuto mescolare appunto i due stili, giornalismo e narrativa, e la cosa mi ha divertito molto. Ma ho anche maledetto il giorno in cui avevo deciso di raccontare storie vere dove tutti gli eventi, le date, i contesti storici, i nomi dovevano essere reali e in cui i protagonisti dovevano approvare la loro storia. Mi sono sentita intrappolata. Ho anche avuto due brutte esperienze. Due persone intervistate e sulle cui storie avevo lavorato per più di sei mesi ciascuna, all’ultimo momento, hanno cambiato idea. E ho dovuto rinunciare a pubblicare le loro storie.
Cosa hai imparato da questa esperienza?
Quanto sia difficile farsi dire la verità durante le interviste. La gente non lo fa la prima volta. Nel mio caso, ho dovuto incontrarli diverse volte, passare tempo con loro, conquistare la loro fiducia. Intervistare è davvero un’arte. Questo lavoro mi ha fatto pensare a quanto fosse brava in questo senso la Fallaci.
Hai scelto le storie del libro dopo aver intervistato molte persone. Come è avvenuta la selezione?
Ho scelto storie diverse tra loro sotto molti aspetti. Per il periodo storico in cui i protagonisti sono arrivati in America, per l’ambito in cui lavorano, le motivazioni che li hanno spinti a partire, per l’età diversa in cui decidono di partire. Alcuni partono giovanissimi, altri dopo i quarant’anni. Inoltre, ero curiosa di sapere chi fossero gli italiani venuti in America che hanno scelto strade diversissime dalla mia, andando a vivere in luoghi remoti. Io ho scelto New York e non vivrei in altro luogo degli Stati Uniti. Questa è una nazione enorme con grandi diversità, ed è stato interessante scoprire paesaggi sia geografici che culturali così lontani da quello che io conoscevo.
So che stai cercando un editore interessato a tradurre Via da noi, mentre proprio di recente il tuo secondo libro è stato pubblicato in inglese. The Writer's Assistant racconta la tua esperienza come assistente della famosa e controversa scrittrice Oriana Fallaci. Non in tanti hanno scritto di un’Oriana Fallaci privata. Come è stato accolto il libro in italia?
Il libro è stato recensito su La Repubblica che lo ha definito una versione italiana de Il Diavolo veste Prada versione in letteratura. È stato accolto molto bene. Il mio editore era timoroso perché dopo l’11 settembre lei era divenuta una figura molto dibattuta. Ma non avevo realizzato quante persone la odiassero in Italia, e quante cercassero scuse per giustificare la ferocia dei suoi ultimi libri finché non sono stata intervistata per il mio libro. Per fortuna, il mio lavoro con lei era stato nel 1999, quindi non aveva nulla a che fare con quell’ultimo periodo.
Oriana era conosciuta per il suo essere intrattabile. Come ci si sente a essere insultati da qualcuno che si ammira così tanto?
Mi sono resa conto di essere un po’ masochista, perché piangevo al mio ritorno a casa, ma ogni mattina mi ripresentavo al lavoro. Ma io avevo intuito che dietro a quella durezza c’era un’umanità e una forte fragilità. Avevo scommesso con me stessa che in qualche modo avrei dovuto farla crollare, si fa per dire: lei crollava se decideva di farlo.
Ed è successo?
Un giorno, quando avevo deciso finalmente di licenziarmi, dopo un dispetto che lei mi aveva fatto e dopo le insistenze del mio fidanzato, la signora Fallaci mi ha inaspettatamente invitato a salire al secondo piano, dove di solito non ero ammessa. Abbiamo bevuto insieme champagne e mangiato lamponi, e abbiamo cominciato a parlare come due amiche. Queste conversazioni strane e straordinarie continuarono per quattro mesi. A un certo punto ricordo di aver pensato che non volevo assolutamente diventare una scrittrice, dato l’isolamento in cui lei aveva scelto di vivere. E allo stesso tempo mi domandavo perché lei avesse scelto me per aprirsi. Forse un giorno avrei dovuto raccontarlo. È stato un momento duro, ma molto formativo della mia vita.
Per chi non conosce la popolarità di Oriana Fallaci come giornalista e scrittrice, potresti equipararla a una celebrità Americana? Mentre a chi potresti equiparare la tua posizione?
Barbara Walters. E per una giovane appena trasferitasi in questa nazione, è come se un’aspirante attrice diventasse assistente di Meryl Streep.