A Venezia arriva il primo film di un turco-tedesco, Fatih Akin, che racconta il genocidio armeno. The Cut è ambientato nella Turchia del 1915, dove Nazaret Manoogian, un giovane padre di famiglia del piccolo villaggio di Mardin, si vede improvvisamente strappato a sua moglie e alle loro due gemelline quando tutti gli uomini vengono reclutati per entrare nell’esercito russo.
Nazaret si ritrova coinvolto nel massacro degli armeni e, mentre tutti i suoi compagni sono trucidati senza pietà, riesce a salvarsi per miracolo grazie alla generosità di uno dei mercenari, benché a causa di un taglio alla gola (il “cut” del titolo) perda l’uso della voce. Da quel momento Nazaret inizia un infaticabile viaggio allo scopo di ritrovare la sua famiglia, in una peregrinazione che lo porterà fino al nuovo continente.
L’interprete che ricopre il ruolo messianico di Nazaret è Tahar Rahim, attore francese nato da modesti immigrati algerini, affermatosi nel cinema per il suo ruolo da protagonista nel premiatissimo film francese Il profeta di Jacques Audiard, del 2009.
Tahar Rahim racconta a La VOCE di New York la sua esperienza nell'ultimo film di Fatih Akin.
Cosa ti ha aiutato ad interpretare un armeno travolto dal genocidio in Turchia?
Mi sono sentito in qualche modo in sintonia dal momento che la mia famiglia è di origini algerine e sono trapiantati in Francia, dove sono nato e cresciuto. È stato un po' come guardarsi allo specchio. E poi ho attinto a Chaplin e Sergio Leone.
Il fatto che parlassi poco nel tuo film precedente (Il profeta) ti ha aiutato ad interpretare un muto in The Cut?
Penso che sia stato uno dei motivo per cui Fatih mi ha scelto. Ma per prepararmi al ruolo ho incontrato due persone mute, una che era nata con questa condizione e l'altra che ha perso la voce dopo un'operazione. Con la prima abbiamo comunicato senza gesti, ci siamo raccontati diverse storie per due giorni di seguito, senza utilizzare il linguaggio dei segni: era tutto negli occhi, il corpo si muoveva ma non così tanto.
Il tuo mutismo del film è in qualche modo una metafora del fatto che nessuno parli di questo genocidio?
Assolutamente. Il titolo The Cut rappresenta una cesura sotto tanti punti di vista, il suo lavoro di fabbro (la prima immagine che vediamo è lui con in mano un paio di forbici), poi gli viene tagliata la gola, e nel frattempo c'è una cesura nel paese, delle radici, della famiglia.
Com’è stato farsi dirigere da Fatih?
C’era una sorta di libertà vigilata. Amo farmi indirizzare e dirigere ma avere al tempo stesso la libertà di esprimermi. Fatih approccia la regia con budella e intelletto, come faccio io come attore. Fatih è anche profondamente spirituale, e in questo film si percepisce una visione messianica, come il nome del personaggio esemplifica: Nazaret.
Dove ti vedremo prossimamente?
Nella mia prima commedia: Samba, che verrà presentato al festival di San Sebastian, Toronto. Mi sono molto divertito a girarla, uscirà al cinema in ottobre. In futuro vorrei lavorare con cineasti di tutto il mondo, americani, coreani. Amo molto i registi italiani, mi piacerebbe lavorare con Matteo Garrone e Paolo Sorrentino.