Sommersa, a mezz’acqua, emersa del tutto e pronta a colpire. Visto il periodo, la metafora balneare pare calzare bene per descrivere l’attuale condizione di Cosa nostra. La relazione semestrale della Dia traccia un quadro inedito di boss e picciotti, ma bisogna saper leggere tra le righe. «Ad esempio non esiste una sola mafia, ma le mafie, come Cosa nostra, n’drangheta, camorra, con strategie e scelte diverse», afferma Maurizio De Lucia, sostituto procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia, un osservatorio privilegiato per analizzare l’evolversi delle organizzazioni criminali. De Lucia, per tanti anni pm a Palermo, è considerato da molti una delle memorie storiche in tema di lotta a Cosa nostra e al racket. Ha iniziato la sua carriera indagando sulla maxi rapina alle poste centrali di Palermo del 1995, organizzata dalla cosca di Palermo Centro e l’ha chiusa, come sostituto procuratore a Palermo, con l’inchiesta su Totò Cuffaro e le talpe al palazzo di giustizia.
Allora, la famosa «sommersione» è davvero finita? La mafia è pronta a colpire di nuovo?
«Fermo restando che la guardia va sempre tenuta alta, l’analisi però è un po’ diversa. Questo concetto riguarda soprattutto la camorra nella quale sono state registrate molte frizioni tra i clan. In questo caso c’è la possibilità concreta che si arrivi a scontri armati. Per quanto riguarda Cosa nostra la questione è un’altra. Il livello attuale dell’organizzazione militare è molto basso a causa degli arresti continui, a cui è seguita una serie di importanti condanne».
Eppure ad aprile c’è stato un importante omicidio di mafia, quello di Giuseppe Di Giacomo alla Zisa…
«Gli scontri dentro le famiglie sono sempre possibili, e il caso Di Giacomo è un esempio concreto. Si possono verificare le condizioni affinchè si creino dei conflitti per la leadership che in questo momento non possono essere regolati da strutture di vertice per l’assenza di organismi riconosciuti da tutti gli affiliati, come la commissione provinciale degli anni Ottanta. Prima in quella sede si regolavano le questioni principali, ricorrendo qualora ci fosse l’esigenza, anche agli omicidi. Adesso manca la struttura apicale e in sostanza ogni famiglia si regola di conseguenze, secondo un modello simile a quello delle camorre dove c’è un continuo rimestamento degli equilibri».
Ma anche gli equilibri mafiosi sono soggetti a cambiamenti. Che effetti producono ad esempio le scarcerazioni dei detenuti? Una questione nei mesi scorsi molto dibattuta…
«Le scarcerazioni incidono sugli assetti di vertice, ma comunque molto dipende dal soggetto scarcerato, dalla capacità operativa, dal carisma. Direi che si possono verificare tre condizioni. La prima è quando il detenuto è atteso dagli altri mafiosi che in un certo senso lo tutelano e riconoscono il suo ruolo. Capita soprattutto con i vecchi boss che costituiscono una sorta di garanzia nei confronti di Cosa nostra. Ma capita anche che gli spazi siano già stati occupati e lo scarcerato diventa un problema. Si può arrivare ad uno scontro, se le «parti» non trovano una soluzione. Ma c’è una terza possibilità. Ci sono dei capi detenuti, che non scontano il 41 bis, e da dentro il carcere pretendono ancora di governare, o comunque di piazzare dei loro fedelissimi al vertice della cosca, creando una situazione di forte tensione. Questo è il caso di Giovanni Di Giacomo, il fratello di Giuseppe, che era considerato un killer e non un capo e per questo non era al 41 bis».
Ma dopo anni di silenzio, perchè Cosa nostra dovrebbe riprendere una strategia di attacco?
«In generale l’organizzazione è sempre alla ricerca di equilibri. La sommersione non ha raggiunto gli obiettivi, non ha garantito il consolidamento e le fortune di Cosa nostra e questo può indurre qualcuno a pensare ad un cambiamento di strategia».
Quali sono gli interessi attuali dei boss, quali le loro priorità?
«Il traffico di droga, le estorsioni e il gioco lecito e illecito. Questo è il business emergente. Le scommesse, il gioco on line, consentono una grande circolazione di denaro liquido. E c’è anche un particolare importante. La legge in materia è piuttosto farraginosa e confusa, la mafia questo lo ha capito e ciò crea dei margine ulteriori di opportunità».
E i «vecchi» appalti?
«Sono in calo. Risentono della crisi degli investimenti pubblici, e dunque l’organizzazione non ci può speculare. Invece ha occhi beni aperti sui nuovi business come le energie alternative ed il ciclo dei rifiuti».
Esiste una strategia vincente contro Cosa nostra?
«C’è e si fonda su quattro pilastri. La cattura dei latitanti, che toglie intelligenze all’organizzazione: meno gente pensante c’è più i mafiosi hanno difficoltà a riorganizzarsi. Poi le indagini sul territorio e quindi le retate che impediscono il consolidamento del potere di un capo e tolgono dalla strada la manovalanza. Il terzo profilo è l’aggressione ai patrimoni. I boss non solo li dobbiamo mettere in carcere, ma li dobbiamo anche impoverire. Per questo i beni sequestrati e confiscati non solo devono essere tolti ai mafiosi, ma vanno rimessi anche a disposizione della collettività. Il quarto aspetto è il 41 bis, che impedisce ai mafiosi di comunicare dal carcere».
A proposito dei beni confiscati. Nei mesi scorsi ci sono state molte polemiche sulla gestione, qual è la sua opinione?
«Penso che l’Agenzia nazionale vada profondamente ripensata. E poi ci vuole un pensiero laico sull’utilizzo. Va valutato caso per caso. I beni quando è possibile vanno messi a disposizione della comunità. Ma se non ci sono le condizioni, allora si deve pensare anche alla vendita. Con tutte le garanzie possibili per evitare che i boss se ne riapproprino».
E l’ultimo grande latitante, Matteo Messina Denaro, che tipo di strategia ha? Sommersione o attacco?
«È certamente interessato a tutelare se stesso. Di recente gli hanno arrestato la sorella, il suo clan familiare è stato indebolito e subisce fortissime pressioni investigative. Deve pensare soprattutto a se stesso».