Fuori dall’Italia si sente vivo, parlare una lingua diversa dalla sua lo fa sentire internazionale, l’obiettivo della sua telecamera è un occhio aperto sul mondo. Libero da clichè, appassionato, determinato e desideroso di scoprire il mondo è spesso con la valigia in mano, viaggia alla ricerca di un nuovo documentario da realizzare, una storia singolare da raccontare. Così vola da Cantù a New York passando per Tanzania, India ed Ecuador per un sogno: diventare regista.
Il cinema non è un mestiere. È un'arte. Non significa lavoro di gruppo. Si è sempre soli; sul set così come prima la pagina bianca.
Jean-Luc Godard
Lui è Francesco Molteni, 26enne brianzolo con la voglia di immortalare il globo nelle sue immagini. Lascia Cantù, un paesino in provincia di Como per andare a studiare filosofia politica a Firenze. Studi classici ma con la passione della pellicola tanto che, dopo la laurea vuole specializzarsi per poter realizzare documentari e sceglie la scuola. Dove? A New York. Nel 2011 vola oltreoceano per frequentare un corso annuale in documentary filmaking.
“Terminata l'università a Firenze decisi di cercare un corso che potesse prepararmi a lavorare nel mondo del cinema-documentario. La strada accademica non faceva per me e pensavo così di poter applicare il senso critico sviluppato con il mio percorso umanistico attraverso le immagini in movimento. Quando comincio a selezionare i corsi non ho dubbi: credo che iniziare a fare pratica in questo mondo a NY non possa avere rivali in altre città. Troppe sono le storie umane in questa città così come unica è la peculiarità che ti permette di viaggiare ogni giorno in uno spazio più o meno circoscritto che ha gli orizzonti del mondo intero. Scelsi il corso in documentary a New York non tanto perché l'America è la patria del documentario (lo è invece la scuola inglese), ma perché pensavo che lo stato d’animo di questa città fosse qualcosa d’introvabile altrove”.
Scelta la destinazione non restava che preparare tutti documenti e le valige. L’avventura nella Big Apple sarebbe iniziata senza imprevisti con un viaggio organizzato e ben programmato. La lingua non sarebbe stata un problema anche se l’accento americano per lui resta una chimera.
“Potrei vivere in Nord America per il resto della mia vita, ma credo che neanche in trent'anni sarei in grado di togliermi il mio fortissimo accento. L'inglese l'ho sempre inteso e sempre mi sono fatto intendere, indubbiamente è maccheronico (lo parlo comunque di gran lunga meglio di Renzi)”.
Una volta arrivato nella City, però, le difficoltà per ambientarsi e la solitudine non sono mancate. Momenti vissuti con la certezza che sono solo attimi poi la città gli avrebbe regalato opportunità e sorprese.
“I primi sei mesi sono stati duri. Non avevo molti amici. Mi ricordo nitidamente i newyorker chiedermi come mi stava trattando la city: è in quel momento che capii che a New York l'attesa, nei momenti morti, vale sempre la pena perché funge sempre da momento preparatorio a qualcosa di inaspettato”.
Le prime giornate di un europeo in America
possono essere paragonate alla nascita di un uomo.
Franz Kafka
Francesco ha intuito molto presto le infinite possibilità che aveva davanti.
“Mi sono bastati due mesi per capire le potenzialità infinite di questa città. A partire dal primo progetto per la scuola. Dovevo realizzare un observational doc short piece da girare in pellicola. Decido di filmare nel primo Hookah Bar aperto nel Queens, nella comunità egiziana. Tutto questo capita in coincidenza con l'ultima rivoluzione egiziana in cui Mubarak è spodestato. Mi trovavo in questo bar pieno di emigrati egiziani di fronte alla tv ad ascoltare le news, il tutto avvolto nella nuvola del fumo della Hookah. Mi trovavo negli Stati Uniti d'America, a New York, ma mi sembrava stessi vivendo la storia del popolo egiziano. È la finestra sul mondo che puoi incontrare quotidianamente a New York. Questo è quello che la rende così speciale per me”.
Per Francesco nella Big Apple c’è la possibilità di crescere professionalmente più velocemente che in Italia per questo motivo ha scelto di vivere un’esperienza americana.
“Qui i giovani arrivano a 25 anni con esperienze professionali importanti che in Italia raggiungi, forse, a 35. Anche qui c'è la gavetta ma, se sei in gamba, nessuno ti dirà che sei troppo giovane per fare qualcosa. Qui ci sono molte opportunità, ma bisogna guadagnarsele”.
Una volta colte le opportunità si moltiplicano.
Sun Tzu
L’esperienza newyorkese è stata utile per Francesco anche per capire quale parte del suo lavoro ama di più.
“Mi piace molto stare sul set. È un'energia unica quella che si sente quando lavori in questo campo con tante persone intorno”.
Nei mesi trascorsi nella City l’Italia non gli è mancata, era abituato a vivere lontano da casa. Quello che non poteva dimenticare era il cibo. Si definisce un pasta-pizza-prosciutto dipendente, ma quello che gli mancava di più era la colazione al bar sotto casa con cornetto e cappuccino arricchita da lunghe chiacchierate con il barista di turno. Una quotidianità che nella dinamica realtà newyorkese era utopia.
Il tempo passa veloce, Francesco termina la scuola e lascia New York. Inizia a lavorare come cameraman freelance/direttore della fotografia, documentarista o come videographer per eventi. Viaggia in diversi paesi per realizzare suoi lavori visibili sul suo sito personale.
“Ho realizzato uno short documentary in Tanzania (The Royal Knwoledge), girato in un community center fondato da due ex formal black panther, uno in esilio politico dai ‘70. Altro progetto importante in cui ho avuto la fortuna di collaborare è stato il documentario girato in India e diretto da Ngawang Choephel about buddhist tradition and culture. L'estate scorsa l'ho passata in Sardegna, facendo il cameraman per il tv reality show Sweet Sardinia, un'esperienza molto divertente e tutta all'italiana. Poi all’inizio di quest’anno ho vissuto tre mesi in Ecuador dove ho lavorato come assistant editor per un documentario ora in post-produzione sulla leggenda del tesoro dello Llanganati”.
Rientrato dall’Ecuador ha molti progetti in mente su cui vuole concentrarsi. Uno di questi vede di nuovo protagonista New York.
“Ho sviluppato un piccolo progetto documentario con la comunità Sherpa che vive nel Queens. Gli Sherpa sono un gruppo etnico delle montagne del Nepal. Per estensione il nome Sherpa si applica alle guide ed ai portatori di alta quota ingaggiati per le spedizioni himalayane. Quest'anno è la prima volta nella storia che la stagione alpinistica sull'Everest viene chiusa in seguito ad una valanga che ha costato la vita a 16 Sherpa. Ho quindi cercato di guardare a questa problematica sociale attraverso il punto di vista della comunità emigrata qui in Nord America (ed è qualcosa che probabilmente continuerò a fare anche in Europa se riuscirò a trovare comunità Sherpa anche lì, sto lavorando per questo). L'idea con questo short cut è quella di presentarlo a una delle opening night del 30under 30 film festival che si terrà a NY a ottobre per sensibilizzare l'audience su questo problema che sta affliggendo l'etnia Sherpa da troppi anni”.
Un obiettivo è un sogno con una data di scadenza.
Steve Smith
Impegnato in questo nuovo progetto Francesco non rinuncia al suo sogno.
“In futuro mi piacerebbe diventare regista. Non sono troppo un tech guy. Mi rimarrà, sempre, la passione per la composizione dell'immagine e per i movimenti della camera. Sento il bisogno di concentrarmi più sulla parte creativo-concettuale di questo lavoro”.
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