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July 6, 2014
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Vincent Piazza è un Jersey Boy, italo-americano al di là degli stereotipi

Laura CaparrottibyLaura Caparrotti
Un'immagine scattata sul set di Jersey Boys con tutti i protagonisti e il regista Clint Eastwood. Vincent Piazza è il secondo da destra. Foto: Annie Leibovitz per Vanity Fair

Un'immagine scattata sul set di Jersey Boys con tutti i protagonisti e il regista Clint Eastwood. Vincent Piazza è il secondo da destra. Foto: Annie Leibovitz per Vanity Fair

Time: 5 mins read

 

Segnatevi questo nome, Vincent Piazza. Vi dico che presto lo vedremo con una statuetta in mano a ringraziare regista e collaboratori. Padre siciliano dalla voce colore del mare, e una mamma vivacissima di lontane origini tedesche, Vincent Piazza è sicuramente un attore in ascesa rapida. Io lo conobbi quando stavamo cercando attori per la lettura del testo teatrale di Gomorra. Un amico comune, Max Casella, che lavorava con lui in Boardwalk Empire mi suggerì di contattarlo. In Boardwalk Empire Vincent era Lucky Luciano. Ci incontrammo e notai che aveva una presenza particolare. Quando recitava riempiva improvvisamente il palcoscenico, quando si parlava era concentratissimo sul discorso che si faceva ed era preparato sul personaggio, sull’opera. Continuai a frequentarlo perché divenni poco dopo la sua dialect-coach per Boardwalk Empire. Vederlo lavorare, da quando iniziava a costruire una scena a quando la girava è stata un’esperienza incredibile. Un principe nella vita reale, discreto e elegantissimo nei modi e nei pensieri, e un camaleonte in teatro e cinema. Ora Vincent è Tommy DeVito, uno dei quattro Jersey Boys diretti da Clint Eastwood e io l’ho intervistato per La VOCE di New York. 

Dimmi la verità, avevi mai pensato di lavorare in un musical come Jersey Boys? 

Ho sempre sperato di poter lavorare un giorno in qualcosa del genere, ma pensavo sarebbe successo a carriera avanzata. Non immaginavo che sarebbe arrivato così presto. Sono felice però che sia successo, ho imparato moltissimo da questa esperienza. 

Cosa hai pensato quando hai saputo che eri stato scelto?

All’inizio ero felicissimo, poi quando ho saputo che gli altri protagonisti sarebbero stati attori provenienti dal musical, ho fatto una pausa e ho detto alla mia agente “mi sa che hanno preso la persona sbagliata. Ti prego chiamali e digli che non ho mai lavorato in un musical prima d’ora”. Lei, essendo la grande agente che è, ha chiamato e riferito quanto avevo detto. La risposta è stata che non dovevo preoccuparmi, che ero in buone mani. Allora mi sono detto perché no?

vincent

Vincent Piazza nei panni di Lucky Luciano per la serie Boardwalk Empire. Foto: courtesy of HBO

Tommy mi ricorda in qualche modo Lucky Luciano. Trovi che ci siano delle somiglianze? 

Beh, Tommy ha certamente delle somiglianze culturali con Lucky, ma non è diventato duro come Lucky, secondo me. Tommy mi sembra anche più estroverso di Lucky. Entrambi però, volendo trovare somiglianze, sono cresciuti in case dove c’era molto poco. 

Parlando di italo-americani, tu sei un italo-americano che ultimamente sta interpretando italo-americani. In che direzione lavori per evitare lo stereotipo? Quanto del tuo essere italo-americano c’è nei tuoi personaggi? 

Mi ritengo fortunato ad avere interpretato alcune figure storiche italo-americane che hanno vissuto vite straordinarie. Grazie al fatto che erano figure realmente vissute, ho potuto studiarle proprio perché reali e non create dalla mente di uno scrittore. Ho preso i fatti e ho cercato di capirli, di ritrovare la verità di queste persone per poterle interpretare con esattezza. Lavoro cercando quello che ho in comune con i personaggi che interpreto e dunque è ovvio che nel caso di italo-americani attingo dal mio essere mezzo italo-americano cresciuto fra italo-americani in un quartiere italo-americano. Gli stereotipi però mi disturbano molto. Trovo che la gente fa molto presto a accomunare storie e personaggi italo-americani perché è sempre successo in passato. Io penso che se certe culture vengono stereotipate è perché c’è della verità universale in loro. È come chiedere perché un cliché diventa un cliché? Perché c’è qualcosa di molto universale in quel cliché. È compito dell’attore o del regista far vedere le specificità di ciascun personaggio. 

Stai diventando una star (non ne ho alcun dubbio): non hai paura di essere catalogato come un attore italo-americano nella casella personaggi italo-americani? In altre parole, non temi gli stereotipi? 

Prima di tutto, grazie… cerco semplicemente di lavorare duro sulle storie che mi ispirano… circa la casella che tu citi, ho sempre temuto di essere stereotipato ed è per questo che ho accettato certi ruoli (come ho detto precedentemente) lavorando soprattutto sul personaggio al di là del genere. Ad esempio, amo moltissimo i classici e spero di potere tornare a interpretarli presto.

Non eri un attore, facevi un lavoro completamente diverso… quando hai deciso di diventare un attore e perché? Sei così bravo che è difficile pensare che tu possa aver voluto fare altro…

Grazie del bel complimento! Sono cresciuto nel Queens dove c’era molto poco per qualcuno che fosse interessato all’arte. Non feci nulla allora perché non ne sapevo nulla. Andavo al cinema e molto raramente a teatro. Così ho deciso di buttarmi nello sport, nell’hockey sul ghiaccio. Quando capii che non avevo la spinta necessaria, ho dovuto decidere se lavorare nell’edilizia con mio padre oppure provare a fare altro. Ha prevalso l’altro e sono entrato nel mondo della finanza. È stata un’esperienza incredibile e ho imparato moltissimo, viaggiato tanto e poi, attraverso una serie di vicende tragicomiche mi sono ritrovato a fare l’attore… ed eccomi qui! La vita può riservarci belle sorprese se la stiamo ad ascoltare. 

Tu hai lavorato con Scorsese e Eastwood. Che cosa hai imparato da loro? 

Mi considero davvero fortunato ad aver lavorato con questi registi. Ho imparato così tanto da Martin Scorsese e da Clint Eastwood. Mi hanno insegnato non solo a fare cinema, ma anche ad essere generoso e mi hanno dato fiducia e confidenza in me stesso. Mi hanno fatto sentire che appartenevo a quel mondo. 

Stai scrivendo una sceneggiatura… ti si vedrà presto o tardi anche dietro la macchina da presa? 

Sto scrivendo molto e ho molte idee che vorrei diventassero realtà negli anni a venire. Mi piacerebbe dirigere, ma devo prima imparare!

Non posso non chiederti… cosa rappresenta per te l’Italia?

Ogni volta che vado in Italia, è come se avessi una esperienza più profonda, più vera. Per me, è un epicentro culturale. La cultura per me è come un nonno orgoglioso che ti fa sedere sulle sue gambe per raccontarti di come erano le cose. Ho un grande amore per l’Italia e spero di passarci più tempo negli anni a venire. 

 

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Laura Caparrotti

Laura Caparrotti

Ho cominciato a fare teatro nell'ingresso di casa mia, a Roma. Poi sono venuti i maestri, la laurea in discipline dello spettacolo e le tournée. Nel 1996, New York, nello storico The Kitchen. Vent'anni dopo sono ancora qui. Ho fondato una compagnia, la Kairos Italy Theater, specializzata in cultura italiana, e In Scena! Italian Theater Festival NY, un festival che porta il nostro teatro in tutti i distretti della città. Il teatro è la mia grande passione, insieme al ballo e alla (magggica) Roma. A New York ho anche iniziato a scrivere (proprio con Stefano Vaccara nel 1997), a insegnare teatro, a fare voice over e la dialect coach. Il tutto condito da un inconfondibile – ma affascinantissimo, mi dicono – accento italiano.

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