Gli asili psichiatrici contano un discreto numero di ospiti che si credono di essere Napoleone. Da una decina di giorni, il panorama politico internazionale conta almeno una persona che si crede di essere califfo.
Quando la politica si separa dalla realtà sociale che l’ha prodotta, diventa sovente un affare di competenza degli psichiatri più che dei politologi. L’autoproclamazione di un “califfato islamico” in Irak e in Siria da parte di un gruppo di guerriglieri già sponsorizzati dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri non meno importanti Stati dei dintorni, e ora da essi tatticamente abbandonati, sembra a prima vista rientrare tra quei casi.
In realtà, non di puro delirio si tratta. C’è anche un pizzico di calcolo politico, anche se di assai corto respiro. Si tratta, probabilmente, di un nuovo episodio della guerrucola per la supremazia sulla misera galassia di facitori di guerre sante, in particolare quella che oppone l’autoproclamato “califfo”, l’irakeno Ibrahim al-Samarrai (detto Abu Bakr al-Baghdadi o, da qualche giorno, Ibrahim al-Qurashi) e il capo di al-Qaida, l’egiziano Ayman al-Zawahiri. Ma è anche un tentativo di accendere vocazioni in quelle centinaia di giovani disperati e socialmente disassati che, nel mondo, cercano una soluzione alle loro crisi esistenziali nel miraggio della guerra santa. Ma se al-Samarrai ha così urgente bisogno di carne da macello, questo vuol dire che la sua situazione, in Siria e in Irak, è tutt’altro che rigogliosa.
Pubblicamente sconfessato dai suoi potenti sponsor sunniti, condannato da molte influenti autorità religiose anch’esse sunnite, nonché, ovviamente, dallo stesso al-Zawahiri, il “califfo Ibrahim” può contare sull’imperturbabile supporto dello sciita Nouri al-Maliki, primo ministro dell’Irak. Che ha fatto (e persiste a fare) tutto il possibile per regalargli quel 20-30% di arabi sunniti che vivono in Irak.
Ma quale che sia lo sforzo di al-Maliki, e del suo collega sciita siriano Assad, per offrire ad al-Samarrai tutte le occasioni politiche e militari di cui questi ha bisogno, nessuno sembra invece disposto a concedere il minimo avallo religioso alla sua mitomania. E ciò basterebbe da solo a far crollare il castello di paglia del presunto “califfato”.
Nella tradizione giuridica musulmana, il califfo – letteralmente il “vicario” del Profeta – può esercitare la sua autorità politica a condizione di essere aureolato dal carisma religioso. Ciò implica che, senza riconoscimento dei dottori della legge religiosa – gli ulema –, il califfo non è califfo per niente.
Ma la cosa si complica (o si semplifica, se si preferisce) se, dal piano della giurisprudenza religiosa, si passa a quello politico. Il califfo era legittimato dagli ulema come i suoi colleghi principi e imperatori cristiani lo erano da vescovi, patriarchi e papi. Ma, a differenza del mondo cristiano, caratterizzato da una frequente lotta per la supremazia tra autorità civile e religiosa, nel mondo islamico gli ulema non sono mai stati in grado di sfidare il potere politico. Questo spiega, tra l’altro, l’assenza di una netta demarcazione tra politica e religione nell’islam: a differenza del mondo cristiano, nell’islam il problema non si è storicamente mai posto, la politica avendo sempre avuto il sopravvento sulla religione.
Per garantirsi l’unzione religiosa, il sovrano ricorreva dunque a un espediente tanto semplice quanto estremamente classico: scegliersi degli untori compiacenti. Nel caso, assai remoto, di una qualche resistenza, scrive Richard Bulliet, il sovrano sceglieva «se cooptare, aggirare o sopprimere l’ulema». Insomma, come dice Graham Fuller, «per lo Stato, la teologia è troppo importante per essere lasciata ai teologi».
Ma il califfato deve avere anche un’altra caratteristica: dev’essere riconosciuto dalla totalità dell’umma, cioè dall’insieme della comunità dei fedeli. Una condizione che non trova alcun riscontro lungo tutta la storia musulmana.
La prima frattura sanguinosa in seno all’umma ebbe luogo proprio al momento della scelta del primo califfo, dopo la morte di Maometto, nel 632. La lotta per la successione si polarizzò su due candidati – Abu Bakr e Alì – che saranno all’origine delle prime guerre tra musulmani e, in prospettiva, del sunnismo e dello sciismo. Da allora, l’umma è sempre stata divisa. Malgrado la prudenza nel servirsi del titolo di califfo, nel corso della storia vi sono stati anche califfati concorrenti e rivali. L’ultimo califfato, abolito nel 1924, lo era solo di nome ma non di fatto, perché rappresentava gli interessi nazionali della Turchia, e non era riconosciuto da molte autorità religiose, in primo luogo da quelle della Mecca.
La comunità musulmana non è semplicemente divisa: in assenza di un’autorità religiosa centrale, la sua subordinazione alle autorità dei differenti Stati, partiti, fazioni, tribù e clan è un dato costante e ineliminabile. Perdipiù, nello spazio geopolitico che va dal Senegal all’Indonesia, ogni Stato, partito, fazione, tribù e clan musulmano che si trovi in stato di ostilità, lo è innanzitutto nei confronti di un altro Stato, partito, fazione, tribù e clan musulmano.
Per ogni “califfo” autoproclamato, vi sono centinaia di religiosi e politici musulmani pronti a sconfessarlo, a bandirlo, e a condannarlo come eretico. I più vivaci sono proprio coloro che sognano la restaurazione del califfato, quello “vero”. Se ogni bandito di strada comincia a proclamarsi califfo, e ad esigere l’obbedienza di tutti i musulmani, la prospettiva non può che allontanarsi, non foss’altro che per un banale effetto di inflazione.
Il signor Ibrahim al-Samarrai, alias “califfo Ibrahim”, assorto nel suo gioco al rialzo con gli altri fabbricanti di terrore, garantisce all’umma solo un elemento di divisione in più. Per la più grande soddisfazione di coloro – musulmani o no – che contano sulle divisioni in seno all’islam per tutelare, e eventualmente far prosperare, i loro affari in Medio Oriente.
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