Il nome non è cambiato entrando da Via Pier Lombardo, è ancora quello del ’72, Salone Pier Lombardo, il luogo scelto da Andrèe Ruth Shammah e Franco Parenti per dare vita a un’idea di teatro lontano dalle suggestioni delle mode, dai richiami commerciali e di mercato, un teatro contro, in cui accogliere tutto ciò che a Milano non aveva spazio. In origine, nel ’33, la struttura era un cinema, era il quartiere Cesare Battisti del Fascio, un quartiere della cultura dove c’era la piscina, il ristorantino, il parlamento, in uno dei locali vi facevano la boxe, c’era anche un teatro, oggi c’è un progetto di riqualificazione della piscina per restituirla alla cittadinanza. Con Andrèe e Franco c’erano Giovanni Testori, il grande scrittore e drammaturgo, e Dante Isella, filologo e critico letterario, l’intento era quello di creare un centro di cultura polivalente, dove si faceva musica, si proiettavano rassegne cinematografiche, si discuteva e si dibatteva. Un teatro che, possiamo dirlo, è andato ben oltre le aspettative iniziali, che si è imposto per autorevolezza e innovazione, che ha prodotto cultura a vantaggio dell’umanità che vi si è imbattuta o semplicemente ne ha avuto sentore, in una Milano senza confini, in grado di recepire le suggestioni e i fermenti artistici di realtà altre, la contaminazione dei linguaggi riconvertita in ricchezza espressiva nell’universo della parola e della gestualità, della significanza. Andrèe Ruth Shammah, nata a Milano nel ’48, ha portato avanti quell’idea di teatro che era anche di Franco Parenti, geniale attore e regista scomparso nell’89, uomo di teatro per eccellenza, che al teatro aveva interamente consacrato la sua esistenza, vissuta nella dignità di uomo e artista indipendente. Parenti era comunista, il suo teatro respirava la libertà che hanno i progetti umanitari volti a migliorare la vita delle persone, a promuovere la crescita culturale, la sensibilità, la consapevolezza della gente, che forse è il vero teatro politico, più vero della denuncia e dei proclami.
Incontro Andrèe in un giorno di sole, è un ottobre ancora d’estate e di caldo, Milano è attraversata da una luce che non ricordo di averle mai attribuito, cielo azzurro terso, strade silenziose e colori che l’autunno ancora non rivela.
Andrèe Ruth Shammah
La comunità italiana degli Stati Uniti, a cui è destinata questa intervista, quella stabilitasi negli ultimi venti, trent’anni, quasi certamente ricorderà Franco Parenti, avrà visto un suo spettacolo o ne avrà sentito parlare.
«Probabilmente sì, ma io dico ancor prima nel senso che Franco è stato una grande star della radio quando faceva “Anacleto il Gasista”, era così popolare, così noto che una volta in uno di questi sketch radiofonici, quando la radio entrava nelle case della gente ed era una realtà molto forte, di cui adesso non ci rendiamo conto perché ascoltiamo senza ascoltare, ma la radio era qualcosa per cui ci si sedeva e si ascoltava, il Gasista aveva dichiarato che c’era sciopero e la gente quel giorno non andò a lavorare, convinta che fosse vero, questo episodio restituisce la dimensione nella quale Franco Parenti si muoveva, l’aveva data il Gasista e sembrava, in quanto tale, notizia vera, da lì sicuramente gli italiani lo percepivano autentico, erano gli anni ’50,’51, Parenti inventò il popolare personaggio di Anacleto, lavorando alla Rai. Poi è arrivato Dario Fo che lui ha scoperto, Dario era un giovane architetto che per guadagnare dei soldi scriveva degli sketch e li lasciava alla portineria di Corso Sempione, Franco, dopo un po’ di volte, chiese al portinaio chi consegnava questi sketch e gli venne risposto che li portava un ragazzo allampanato, alto, alto e lungo.
Parenti chiese di incontrare il giovane in camerino, quando lo ebbe davanti lo invitò, per la faccia che aveva, a recitare quegli sketch di cui era autore. Fo replicò di voler fare l’architetto, quello era solo un mezzo per guadagnare due lire, ma lui lo convinse e generosamente gli concesse parte del suo spazio radiofonico, poi misero su compagnia con Giustino Durano. Franco Parenti era amico di Paolo Grassi perché aveva aperto il Piccolo Teatro, Grassi non credette subito a questi tre ragazzi, a cui aveva dato spazio in estate quando non c’era l’aria condizionata, non c’era niente, debuttarono a fine maggio, giugno e furono tre mesi di tutto esaurito al Piccolo Teatro di via Rovello, fu un caso di teatro satirico esplosivo, con lavori quali “Il dito nell’occhio”, del ’53, “Sani da legare” del ’54».
Cosa significò per Parenti l’incontro artistico ed umano con Eduardo?
«Parenti ebbe una vita e una storia molto varia perché era prima di tutto molto curioso e dunque passava dalle compagnie, pur essendo anche molto noto, quando è arrivato aveva fatto l’“Arturo Ui” di Brecht con la regia di De Bosio, un successo pazzesco, aveva avuto diversi riconoscimenti e premi, aveva preso il San Genesio, ma lui si rimise in discussione andando in compagnia con Eduardo De Filippo. Eduardo scrisse addirittura “Dolore sotto chiave” con una parte di non napoletano per Franco e Franco poi fu quello che obbligò Eduardo a scrivere i suoi soggetti perché i testi suoi pubblicati non avevano non le battute, un tempo nei copioni si metteva un cerchio con una sbarra che voleva dire soggetto. I direttori o i commendatori, a seconda dei nomi che si danno ai capocomici, le loro battute non le mettevano, le facevano come improvvisazione, anche se erano sempre quelle perché c’era la trama, le commedie erano molto snelle, tutto ciò che le riempiva erano le battute di soggetto che venivano codificate e diventavano come delle vere battute, però non erano nei testi. Franco, lavorando con Eduardo, lo obbligò a mettere tutte le battute sui testi, quelle che per lui erano battute per far ridere, tant’è vero che adesso le pubblicazioni di Eduardo riportano tutte le battute, Franco guardava culturalmente e valorizzava quello che per Eduardo era mestiere, tanto che lo portò al Piccolo e fece fare a Strehler la regia di “La Grande Magia”, la storia si chiude in un modo straordinario perché da un teatro che considerava Eduardo un attore, autore dialettale minore, si arriva a Strehler che mette in scena Eduardo».
Cosa ha rappresentato per lei Eduardo?
«Eduardo sarà un mito ovunque mi auguro e spero, nella mia vita ha significato moltissimo, ho conosciuto Eduardo con Franco Parenti a Napoli, al San Ferdinando, lì ho appreso un mondo che, stando al Piccolo Teatro, dove la cultura era la C maiuscola, dove non si rideva, era la cultura di Brecht, l’impegno civile, per me ragazzina, era un mondo sconosciuto, avendo come riferimenti Strehler e Paolo Grassi. Eduardo era considerato all’epoca autore dialettale minore dall’establishment che faceva appunto la cultura, dalla Germania, dal teatro pubblico, lui era il teatro privato per eccellenza, fu, per me, una scoperta straordinaria, con Franco Parenti che mi tutto questo. Nel ’68, quando Strehler lasciò il Piccolo e andò a fondare la sua cooperativa perché c’era la contestazione, come aveva fatto a Parigi Barrault, Franco venne chiamato a gestire il teatro in quegli anni, lui portò il Ruzante e fece rifare a Eduardo “Gli Atti Unici”, da lui considerati roba da avanspettacolo che faceva con sua sorella e suo fratello agli inizi. Parenti li fece mettere insieme, lo spettacolo si chiamò “Ogni anno punto e da capo”, uno spettacolo legato a delle soubrette, c’era Ombretta Colli, Ivana Monti, una compagnia straordinaria, come lo erano gli sketch comici che Eduardo faceva. Eduardo era un po’ scettico, disse: “ Ma come, io vado al Piccolo Teatro e facimme i scheck?” Franco replicava che erano dei capolavori. Quando Parenti interpretò il mago sgangherato di “Sik Sik artefice magico”, Eduardo vide il successo che ebbe e poi lo rifece lui, una delle ultime cose che Eduardo fece prima di morire fu Sik Sik che riconsiderò in una luce nuova dopo averlo visto valorizzato da altri, ritenuta opera minore solo perché non conosciuta come le grandi commedie che l’avevano portato al successo, “Natale in casa Cupiello”; “Il sindaco del Rione Sanità”; “Filumena Marturano”; “Le bugie con le gambe lunghe”, le commedie della maturità, insomma. Lui venne anche qui al Salone Pier Lombardo a recitare, dopo che non recitava più da nessuna parte, portò il recital di poesie “Pari e dispari” e fece tante cose che mi aiutarono molto, io ebbi con lui un rapporto d’amicizia straordinario».
Il clima sociale e politico dei primi anni Settanta, quando nacque il Salone Pier Lombardo, influenzò la programmazione del teatro?
«Non credo, io penso che quello che abbiamo fatto all’inizio è un proclama che è la storia, la base di questo centro, scrivemmo che avremmo fatto Testori che nasce con noi, avremmo fatto un classico che era Moliere, che avremmo fatto un teatro di attualità, di satira che riprendeva l’anima di Franco Parenti e che poi è continuato nelle novità italiane, questo era l’intento. La caratteristica di questo teatro è che non è mai stato di moda, non ha mai fatto quello che piaceva agli altri, non ha mai cercato il consenso con le idee troppo facili, un teatro scomodo, che è sempre stato contro, c’è stato un momento in cui questo era il luogo dove tutto quello che non aveva spazio a Milano poteva essere accolto. Diciamo che questo è un teatro che non vuole essere politically correct, dove Franco Parenti ha fatto show, proponendo uno show di destra, dicendo che se fosse tutto così semplice per la lotta di classe, bastava far così e far cadere il padrone e dunque portò in scena “Il fabbricante di cannoni”, molto simpatico e molto difficile da scansare. Il partito comunista, dalle sue posizioni, era molto scettico perché era provocatorio Franco, un uomo intelligente che, come tutte le persone intelligenti, vuole pensare con la sua testa ed ebbe molti problemi, più quasi con il suo partito e poi, in quanto comunista, non poteva lavorare in Rai perché ai comunisti era veramente impedito di entrare nel cortile delle istituzioni. Dunque questo è un teatro che ha un’insegna, quella di non farsi prendere dalle ondate di pensiero».
La cultura ebraica, l’identità ebraica plurale che, come dice, le appartiene, ha un suo specifico nell’approcciare la messinscena, la rappresentazione?
«Secondo me sì, prima di tutto perché non si preoccupa della verosimiglianza realistica, vieta la rappresentazione, per cui si dichiara di essere sul palcoscenico e parlare, tanto è vero che Peter Brook è ebreo, Ariane Mnouchkine è ebrea, cioè tutti quelli che hanno smontato la scatola scenica sono ebrei, quelli che l’hanno costruita e che hanno tentato di essere più veri del vero, prendiamo due grandi esempi che sono Visconti e Strehler, non potrebbero essere ebrei, la cultura ebraica non ha niente a che vedere con la necessità anche di parlare, non c’è il tentativo di fare una rappresentazione della realtà, in nessun modo. Poi ci sono molte altre componenti, una forma di umorismo, di disperazione umoristica; nel cinema di marca totalmente ebraica, dalla Metro Goldwyn Mayer tutti i registi fuggiti dalla Germania e da altri paesi europei perseguivano la comicità, la leggerezza, perché dovevano cancellare con una realtà inventata una realtà insopportabile che era quella della shoah, lo stesso Kurt Weill, grandissimo musicista ebreo che in Germania suonava con Brecht, giunto in America si mise a scrivere dei musical, una sorta di reinvenzione favolistica per non soccombere».
Questo teatro sarebbe pensabile in un altro contesto?
«No, la storia di questo teatro è legata ad un modo lombardo di fare le cose, io sono figlia di Paolo Grassi e di Testori, dico lombardo per dire la parte di spessore della Lombardia, di Manzoni, cioè che ha un senso fare quello che si fa, e che si convocano a pagamento dei cittadini con la responsabilità di farlo, noi siamo un teatro privato con una serie di missioni dal servizio pubblico che nessuno ci ha mai chiesto, ce le siamo date da soli perché per noi è un impegno fare teatro».