Luigi Einaudi è una pietra miliare del pensiero economico e sociale del Novecento, grande statista, viene annoverato a ragione tra i padri della patria, anche se questa non gli è molto riconoscente, soprattutto dagli intellettuali, come viene ricordato durante una giornata di studio a lui dedicata, se in pochi anni questo paese passò dalla disperazione al boom economico, c’erano delle idee, l’idea della divina provvidenza, ma gli storici lavorano sulla scienza e non sulla divina provvidenza.
C’erano le idee di Einaudi, naturalmente, il suo operato di statista, ministro, governatore della Banca d’Italia, presidente del Consiglio, con un’inflazione che era arrivata a livelli elevatissimi. E’ importante oggi rivisitare il pensiero einaudiano, richiamarsi ai testi, anche per sgombrare il campo dai numerosi equivoci che inficiano il liberalismo e il suo
alto contenuto: un certo presidente del Consiglio, ormai ex, millantò di essere l’erede del liberalismo conservatore, un oligopolista come lui che mai avrebbe potuto gettare le basi di quella rivoluzione liberale di cui si sentiva artefice!
Noi, ha ricordato un autorevole studioso, Enzo Di Nuoscio, docente di Metodologia delle Scienze Sociali alla Luiss di Roma, possiamo attingere al pensiero di Einaudi come ad una risorsa, un giacimento abbastanza inesplorato, per trovare un orientamento, una risposta alle tante problematiche che assillano l’attuale periodo storico.
Einaudi, piemontese di Carrù, classe 1874, vissuto ottantasette anni, ministro delle Finanze nel IV governo De Gasperi, governatore della Banca d’Italia tra il ’45 e il ’48 e subito dopo presidente della Repubblica fino al ’55, definiva il suo pensiero “il liberalismo della povera gente”. Un recente articolo, pubblicato sul quotidiano “Europa”, mostra un aspetto teoretico-spirituale di Einaudi su cui non aveva insistito nessuno, egli fu tutt’altro che solo un economista o scienziato delle finanze. Quel “liberalismo della povera gente” è l’anima di una teoria politica orientata a migliorare le condizioni economiche dei più deboli, è questo il filo rosso che sviluppa tutto il suo pensiero che ha attraversato più di cinquanta anni di storia italiana, come opinionista del “Corriere della Sera”, uomo politico, collaboratore di “The Economist”, forse il più grande statista e uno dei più grandi intellettuali del Novecento.
Leggendo Einaudi, ha ricordato Di Nuoscio, ci rendiamo conto che il suo è un liberalismo fondato sulla complementarietà di tre princìpi, inseparabili l’uno dall’altro: il principio di libertà; il principio di legalità; il principio di solidarietà, non stanno insieme, è come un trespolo, se tu togli una gamba, cade, è esattamente questo il liberalismo di Einaudi.
Il principio di libertà è evidente in un liberale, tuttavia egli, di formazione positivista, molto rigoroso, studioso del diritto inglese, fuori da una certa tradizione anche nazionale, era consapevole della necessità di dover giocare su più piani, anzitutto il piano filosofico, lui economista, scienziato delle finanze che si è misurato con gli aspetti più tecnici della libertà, riconosce che dobbiamo essere liberi perché siamo fallibili, non possediamo una conoscenza assoluta, dobbiamo essere liberi perché la libertà diventa uno strumento per mobilitare le conoscenze, per discutere, far circolare le informazioni, per incrementare la capacità di “problem solving” in un gruppo.
Un gruppo sopravvive, come dicono gli evoluzionisti e gli antropologi, ad un vantaggio evolutivo su un altro gruppo proprio perché vive, la conquista della libertà è una risorsa perché la libertà significa discussione, significa diversità, maggiore capacità di conoscenza, ma noi possiamo accettare la libertà come habitat per la soluzione di problemi se siamo consapevoli di essere fallibili, se c’è un essere che pensa di essere infallibile, la libertà diventa un fastidio, se non qualcosa da sopprimere, questo lo sapeva bene Einaudi: “Il duce ha sempre ragione” era la negazione di questo principio, il duce per dire qualsiasi regime totalitario.
Dell’umana fallibilità egli esplora persino la base logica e non bisogna stupirsene, aveva studiato a Torino, conosceva Giovanni Vailati, il pragmatismo, da qui ha origine quella formazione che lo porterà a scrivere: «L’unica garanzia di salvezza contro l’errore, contro il disastro, non è la dittatura, ma è la discussione, la libertà vive perché vuole la discussione fra libertà ed errore, sa che solo attraverso l’errore si giunge per tentativi, sempre ripresi, mai conclusi, alla verità.
Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale, dal proporzionale etc., essa esiste perché esiste la possibilità di discussione, di critica, la possibilità di tentare di sbagliare, di prestare critiche di opposizione, ecco le caratteristiche dei regimi liberi».
Si parla di questi princìpi nella raccolta di scritti, dedicati ai problemi del lavoro e del mondo operaio, che Einaudi era andato pubblicando in oltre vent’anni di attività pubblicistica, a cominciare dalla collaborazione con “La Riforma Sociale”, scritti, di cui Piero Gobetti fu editore entusiasta, e di cui “La bellezza della lotta” costituisce l’introduzione pensata e scritta nel 1924 da Einaudi per riunirli in un unico testo, in cui espone chiaramente la sua visione della realtà sociale, rievocando gli anni eroici del movimento operaio italiano rappresentato da quei lavoratori che “nascevano alla vita collettiva, comprendevano la propria dignità di uomini”.
Non esitava, Einaudi, ad aprire una polemica contro tutte quelle forze che, in nome di un malinteso principio di concordia sociale, si frapponevano alla libera dialettica dei conflitti di lavoro, si trattasse di corporativismo o interesse superiore del paese o monopolio, egli portava avanti la sua causa, in un clima che prefigurava già il restringimento di quelle libertà e quei diritti, quel rinnovamento, che l’avvento del fascismo soppresse brutalmente. Nella conclusione finale – “Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita” – brilla la concezione einaudiana della lotta intesa come strumento per mobilitare le conoscenze, libertà significa libertà di competizione, competizione viene dal latino “cum-petere”, cercare insieme, chi compete dentro regole condivise fa l’interesse di tutti, competendo si trova la soluzione che viene poi socializzata.
La competizione è una forma di collaborazione, questo è un presupposto filosofico fondamentale che trova il suo complemento nel presupposto economico secondo cui la libertà si difende con l’economia di mercato, diversamente da quanto Benedetto Croce andava teorizzando in merito alla libertà politica compatibile anche con regimi non di libero mercato.
Nel principio di legalità, Einaudi scorge l’imperio della legge e lo stato di diritto come l’altra faccia dell’economia di mercato, egli comprende che la democrazia non è il governo del popolo, è il governo della legge e il popolo deve sottostare alla legge, ricordando che sciaguratamente Hitler andò al potere con libere elezioni. Governo della legge, ossia imperio della legge, che significa creare vincoli uguali per tutte le persone affinché non ci possano essere discriminazioni nelle attitudini personali, è un principio abbastanza generale che deve servire a due obiettivi prioritari: difendere gli individui dall’onnipotenza dello Stato e dalla prepotenza dei privati.
Se si pone mente a quanto Einaudi afferma circa il ruolo svolto dalla magistratura nella società, ci si accorge di quanto la sua lezione sia stata disattesa in questo paese, nella storia della repubblica e mai come negli ultimi vent’anni.
L’indipendenza della magistratura presidia l’imperio della legge che deve essere fatta rispettare da magistrati ordinari, indipendenti dal re, dal potere esecutivo e da quello legislativo e al di fuori e al di sopra dei favori del governo, chiamati a giudicare in nome della sola giustizia, se occorre anche contro le pretese dello Stato.
Affermare che la legge, lo stato di diritto è l’altra faccia dell’economia di mercato sta a significare che questa non è un sistema autoregolantesi, ciò sarebbe un’illusione, ne siamo stati vittime, chi più, chi meno, anche in questi anni. Lo Stato liberale ha il compito fondamentale di combattere i monopoli, Einaudi ne fa uno dei princìpi cardine del suo liberalismo, il monopolio, riducendo il potere di scelta dei consumatori, annullando l’incentivo all’innovazione, imponendo prezzi più alti, sta alla radice della sopraffazione dei forti contro i deboli, favorisce ricchezze immeritate.
Il terzo principio, quello della solidarietà, nello Stato liberale non vuol dire l’uguaglianza di tutti in tutto, questa è l’uguaglianza illiberale dei regimi tirannici, la pianificazione economica è uno dei più accesi feticci del comunismo, mentre l’uguaglianza liberale a cui guarda Einaudi è data dalla riduzione delle differenze sociali, per quanto possibile, dal miglioramento delle “chanches” dei meno abbienti.
Oltre a combattere i monopoli, è necessario introdurre il minimo vitale, cioè il salario minimo garantito, Einaudi, come i grandi liberali, auspicava questa misura; quando scrisse “Lezioni di politica sociale” si trovava in esilio in Svizzera, negli anni ’43-’44, comprese bene che le lacerazioni sociali, le disuguaglianze troppo accentuate erano una delle cause del fascismo, dell’affermarsi del regime, per questo lo Stato liberale, se vuole difendere la libertà, la competizione economica, doveva combattere le disuguaglianze sociali insormontabili, dunque lesive della dignità umana.
E’ impossibile non derivare dal pensiero einaudiano una lezione per il presente, un monito in quella degenerazione del capitalismo rappresentata dalla finanziarizzazione dell’economia internazionale che applica sui più deboli i propri costi, a cui, sosteneva, solo uno Stato liberale autentico può porre rimedio, distinguendo tra economia di mercato e capitalismo storico. Oggi le degenerazioni del capitalismo storico sono anche i grandi monopoli internazionali contro i quali i piccoli Stati riescono a fare poco, e gli statisti illuminati, i giganti del pensiero vivono solo nella nostra memoria.