Marcella Cravos, che aggiunse il cognome Ortar agli inizi del secondo dopoguerra, a seguito dell’adozione da parte una zia materna che affiliò lei e i suoi tre fratelli, rimasti orfani di entrambi i genitori a distanza di pochi anni, è nata nel
’20 a Trieste, città molto amata, intensamente vissuta e ripercorsa nel flusso ininterrotto degli affetti, nel pensiero più intimo e profondo che non l’ha mai abbandonata: voci, immagini, colori, rumori sempre con lei, anche quando la vita l’ha condotta altrove, lontano da quel Molo Audace che per ogni triestino è la città e qualcosa in più, come dire Trieste o dire la patria. “Frammenti di memoria” è una sorta di autobiografia, un viaggio attraverso il proprio passato, un’esistenza vissuta nell’infanzia e nella giovinezza nell’Italia fascista, che, se non ci si opponeva al regime, poteva anche dare l’idea di stabilità e florido progresso, crescita economica autarchica e rigorosa, certezza del futuro.
Per coloro che volessero continuare ad ignorare la gravità di un sistema politico che non accetta il dissenso quale espressione di democrazia e il pensiero critico quale logico sviluppo della partecipazione dei cittadini alla gestione della
cosa pubblica, il fascismo, prima che l’Italia entrasse in guerra, nel giugno del ’40, aveva realizzato un consenso pressoché unanime nella popolazione italiana, riuscendo a far passare sotto silenzio persino l’orrore delle leggi razziali del ’38 e nonostante le sanzioni, ricordate anche nei Frammenti, imposte il diciotto novembre del ’35 dalla Società delle Nazioni all’Italia per avere invaso l’Etiopia il mese precedente.
Sarà un altro diciotto novembre a significare una data importante nella vita della giovane triestina, nominata insegnante in una scuola elementare di Traù, in Dalmazia, nel ’41, una missione che, secondo quanto il Duce aveva pubblicamente dichiarato, avrebbe consentito agli insegnanti italiani di conquistare la titolarità senza partecipare al concorso.
Trieste-Traù-Gallicano sono i luoghi della memoria di Marcella Cravos, narrati sino all’arrivo, nell’ottobre del ’45, nel
piccolo paese oltre la via Prenestina, quando Roma finiva al Quarticciolo e il Ponte Amato non era transitabile perché danneggiato dalla guerra.
Che posto aveva ed ha il Molo Audace nei sentimenti dei triestini?
«E’ il Molo che si protende verso il mare, da Piazza Unità, qui ha attraccato la prima nave italiana nel 1918, prima si chiamava Molo S. Carlo, fu ribattezzato Audace dal nome della nave che riportava gli italiani, reduci dalla Grande Guerra. Marcella legge l’ultima strofa della poesia di Umberto Saba “Il Molo” che termina con gli ultimi versi rivolti alla donna amata: “Sai che un più vario, un più movimentato porto di questo è solo il nostro cuore”, un modo autorevole per riflettere ancora sul forte legame che unisce Trieste al Molo Audace».
Che ricordi ha del fascismo durante la sua infanzia?
«Poco tempo dopo l’avvento del fascismo, comincia la recessione economica anche a Trieste, mio padre aveva una fabbrica di botti di legno che esportava anche in Dalmazia, nel 1908 mia madre Adele fu assunta nella fabbrica di botti di Roiano di cui erano proprietari mio padre Giorgio e suo fratello Giacomo, lì si conobbero ed ebbe inizio la loro storia. Quando scoppiò la Grande Guerra, mio padre “divenne per for-za soldato austriaco”, la cosa lo angosciava non poco e, per non essere mandato al fronte contro gli italiani, fece in modo di procurarsi il tracoma, perciò venne ricoverato in Austria, nell’ospedale di Notiesetvespital di Liebena, Graz Stiria. Ricordo una lettera di ringraziamento inviata da mia madre a mio padre, quando era ricoverato e le aveva scritto, elogiandola per l’impegno profuso nell’azienda in sua assenza, lei esprimeva una gioia tutta patriottica di felicità per la liberazione di Trieste, per Trieste italiana, fu tra coloro che aspettarono l’arrivo della nave Audace. Ricordo, altresì, “quella bandierina tricolore di raso che cucì e ricamò in barba agli austriaci”, la mostrava con orgoglio a noi bambini, come fosse una reliquia. Mio padre che ho visto dedicarsi ai lavori più insoliti, in casa, lui che era stato un industriale molto benestante, dovette chiudere la fabbrica per le difficoltà economiche sopraggiunte e così lo vidi tagliare i capelli ai miei fratelli, risuolare i sandali, dipingere i muri e i mobili di cucina. Lo vidi fare lo scalpellino sulla pietra dei gradini di casa, quattro piani di scale, fu in quell’occasione che un passante gli chiese a quale piano abitasse il signor Giorgio Cravos e lui forse si vergognò perché rispose che l’aveva visto uscire poco prima. Mia madre lo spronava a cercare un lavoro, ma lui non aveva la tessera del fascio e nulla si faceva senza».
Ma il fascismo era comunque presente nella vita di tutti i giorni, imponeva delle regole a cui era difficile sottrarsi.
«Noi studentesse avevamo una divisa obbligatoria, forse retaggio della Trieste austriaca: gonna blu, camicetta a righe, colletto bianco, fiocco blu, inoltre, durante l’ora di educazione fisica, dovevamo indossare la divisa fascista delle Giovani Italiane, con la gonna nera a pieghe, che tanti problemi presentava nei giorni di bora. Nel ’39 frequentai un corso di economia domestica per Giovani Fasciste, per avere punteggio in graduatoria nelle supplenze presso le scuole elementari, così nel ’41 feci le mie prime supplenze a Monrupino, a Orle, a San Giacomo in Colle e a Crastie di Postumia da dove fuggii in bicicletta perché il giorno prima c’era stata la dichiarazione di guerra con la Iugoslavia».
Quali fatti storici sono rimasti fuori dalla sua narrazione?
«Non vi sono testimonianze ragionate e prolungate sull’inizio della guerra nel ’39, sulle sanzioni all’Italia nel ’35, sulle file con le tessere per i generi alimentari, pagine dolorose per raccontare le numerose deportazioni di ebrei triestini, sui forti timori per la dichiarazione di guerra della Iugoslavia, che significò perdere il Carso e vedere sfumare la possibilità per tanti italiani di insegnare in certe zone».
Come fu l’impatto con la Dalmazia?
«Partii da Fiume il diciotto novembre del ’41, con una nave mercantile diretta a Spalato, un viaggio lungo tre giorni, di notte la nave non viaggiava, ricordo la bellezza delle coste, delle isole, dei paesi affacciati sul mare. Subito si sparse la notizia del mio arrivo a Traù, distante un’ora da Spalato, tra le autorità ci vili, ecclesiastiche e fasciste, tra la comunità italiana e la popolazione croata, andai ad abitare presso una famiglia croata, di fronte alla casa del fascio. Traù era presidiata dagli artiglieri, prima c’erano stati i bersaglieri. Fu difficile insegnare a leggere e a scrivere a bambini croati che non conoscevano una parola d’italiano. Traù era Trogir per i croati, un gioiello di bellezza veneziana, una città che mi piaceva, tuttavia ben presto compresi che anche noi insegnanti eravamo al fronte, nei luoghi di guerra, di missione, per questo ci pagavano mille lire al mese! Presto arrivarono gli spari dei soldati di Tito sulla terraferma, quel Natale del ’41 fu triste, lontano dai miei cari, nella percezione che tra la popolazione croata il consenso a Tito cresceva».
Perché lasciò Traù?
«Non dettero più la titolarità che Mussolini aveva promesso agli insegnanti italiani in missione per due anni in Dalmazia, fu una falsa promessa, molti italiani, insegnanti, vennero uccisi dai “titini,” i seguaci di Tito, io feci il concorso e lo vinsi, mia madre, che persi nel settembre del ’42, mi obbligò dichiaraa farlo, non credendo che quella missione mi avrebbe dato il ruolo, così tornai a Trieste e fu la mia salvezza, mentre altri colleghi rimasti a Traù vennero uccisi».
Voi insegnanti italiani venivate identificati con il fascismo?
«Certo, noi avevamo una tessera di Giovani Italiani, tutti quanti, non si andava a scuola se non si aveva la tessera, noi, avendo avuto da Mussolini quella promessa, non potevamo dire che non volevamo più essere italiani e stare lì come croati, non era possibile. Io a Traù ho conosciuto Renato, l’uomo che avrei sposato e seguito a Gallicano, lui poi andò a insegnare a Sarayevo, aveva fatto il concorso per il consolato, riuscendo anch’egli a fuggire e ad arrivare a Trieste, dove ci sposammo nel ’45. Ricordo la censura che spiava le lettere da lui scrittemi da Sarayevo a Traù, coprivano con strisce nere qualsiasi informazione sull’occupazione. Il fatto è che noi eravamo due italiani che insegnavano in zone dove stavano accadendo fatti importanti, dove la storia, nel male e nel bene, si stava compiendo. Tutti erano sospettosi che noi non fossimo altro che tramite di notizie, spie e invece non era così, ci guardavamo bene dal farci raccontare le storie, i fatti, quelli di Trieste ci bastavano».
Che cosa accadde alla sua famiglia dopo l’otto settembre del ’43?
«Mio fratello Giulio, il più piccolo dei quattro figli, fu vittima delle stesse suggestioni scaturite dall’idea di patria e di nazione da salvare, egli andò ad arruolarsi con degli amici che poi si tirarono indietro, fu ferito, finì in mano ai sostenitori di Tito, si salvò per puro caso, perché fece il mio nome a chi mi aveva conosciuto come insegnante e mi ricordava, così fu medicato e nutrito e guarì, facendo ritorno a casa dopo parecchi mesi. La nostra casa di Trieste venne bombardata dagli americani, dalla mia finestra potevo osservare il rosone della sinagoga degli ebrei, rivedo ancora, come in un flash, la desolazione di mio padre di fronte alla casa senza più tetto e la vita che faticosamente doveva continuare».