Nella foto, Laura Boldrini a Lampedusa
Su Facebook c’è chi, molto seriamente, l’ha candidata a Premier. Lei ci ride. Ma molti politici, soprattutto dell’attuale maggioranza, guardano con irritazione questa bella donna. Perché Laura Boldrini, con gentile fermezza e usando con competenza gli strumenti offerti dagli accordi internazionali che conosce a memoria, non si fa mettere i piedi addosso quando c’è da difendere i diritti dei più deboli. Giornalista marchigiana da anni a Roma, dove è portavoce in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), è una figura per certi versi anomala: radicata in Italia ma profondamente internazionale.
I più deboli per cui si batte sono le migliaia e migliaia di persone – uomini, donne, bambini – che, in fuga dai loro Paesi cercano asilo e riparo in Italia. Negli anni passati ha contrastato, con successo, i respingimenti in mare di questi disperati. Atteggiamento, dice, che va contro ogni sentimento di solidarietà di “un Paese accogliente, capace di recepire le diversità culturali, interessato e incuriosito dai cambiamenti della società”. È talmente convinta che questa sia la vera Italia da avere dedicato un intero capitolo del suo recente libro «Tutti indietro» (Rizzoli) a questa “Italia che c’è ma non si vede”. Ma oggi non ha tempo per riflettere su quanto ha scritto. Perché la nuova ondata di barconi provenienti dal Nord Africa l’ha ributtata sotto i riflettori dei media. E i sospetti dei politici.
Memorabile resta l’attacco di due anni fa del ministro della Difesa Ignazio La Russa: un attacco sia all’Alto Commissariato Onu per i rifugiati che – disse – «non conta un fico secco» sia proprio a lei, sul piano personale.
«La maggior tensione c’è stata, appunto, nel 2009 quando il governo italiano decise i respingimenti in mare degli immigrati che tentavano di approdare sulle nostre coste. Non si voleva nemmeno identificarli, sapere perché erano stati costretti o avevano pensato di dover fuggire dal loro paese. Questo atteggiamento, al di là delle considerazioni umanitarie, non era in linea con gli standard della Convenzione di Ginevra. E lo dissi. Facendo semplicemente il mio mestiere e, da portavoce, riferendo le preoccupazioni dell’organizzazione internazionale per cui lavoro. Ma questo ha provocato la reazione molto forte di alcuni politici che hanno pensato che l’unico modo per controbattere fosse il ricorso all’insulto personale. Tra l’altro venni accusata di essere “una nota comunista”, io che non sono mai stata iscritta ad alcun partito; e “figlia di un noto capo partigiano”, altra falsità perché mio padre non è stato partigiano: tra l’altro, se lo fosse stato sarebbe stato un fatto di cui vantarsi».
Lei come reagisce a queste bordate?
«La cosa, ovviamente, mi è dispiaciuta: non per me ma perché questo modo di fare ha dimostrato un’obiettiva incapacità di relazionarsi e confrontarsi con il mondo reale da parte di alcuni ambienti politici italiani».
E l’UNHCR intervenne in sua difesa?
«Certo! A parlare fu proprio l’Alto Commissario, Antonio Guterres, che definì “inaccettabile” un simile attacco personale. Era chiaro a tutti che, cercando di colpire una persona con accuse peraltro infondate, in realtà si stava cercando di screditare un’intera organizzazione internazionale di grande importanza».
E oggi i rapporti con il governo come sono?
«Noi lavoriamo con il governo. È quello che un organismo come il mio deve sempre cercare di fare. E va detto che, nella nuova ondata di profughi dal Nord Africa, non ci sono stati respingimenti in mare. Certo, i toni sono sempre molto accesi, troppo. Si lanciano previsioni drastiche su quello che potrà succedere, si continuano a paventare scenari da esodo biblico. Così non si aiuta l’opinione pubblica a capire e prendere le dovute misure: si spinge la gente a non dare la propria solidarietà – e gli italiani sanno essere solidali! – dando invece sfogo alle ansie da assedio. Ed è quello che sta accadendo».
Come si spiega alla gente che non bisogna avere paura?
«C’è da fare un lavoro culturale molto profondo. A livello europeo, innanzitutto. Gli ultimi arrivi di profughi dalla Tunisia hanno probabilmente messo a nudo le criticità del “sistema Europa”. Ognuno dei 27 paesi che compongono l’Unione Europea ha una propria differente legislatura in materia di immigrati e rifugiati. Insomma: l’Europa, al momento, non ha gli strumenti per gestire questo delicatissimo fenomeno. I singoli paesi su questa materia non sembrano disposti a cedere le proprie competenze all’Unione. Anzi, in alcuni sta tornando la voglia di rialzare le vecchie frontiere, chiudendo quello spazio comune di libera circolazione che è una delle grandi conquiste dell’Unione».
E la legislazione italiana in materia di concessione dell’asilo, com’è rispetto alla media europea?
«La legge Bossi-Fini ha indubbiamente cambiato in meglio la situazione precedente. Prima c’era un’unica commissione centrale che doveva vagliare le richieste, con tempi di attesa lunghissimi, anche di tre anni durante i quali non veniva data alcuna assistenza al richiedente e gli veniva anzi persino impedito di lavorare. Con conseguenze, anche sul piano psicologico, facilmente intuibili. Oggi, invece, le cose si sono velocizzate. Grazie alla decentralizzazione: ci sono dieci commissioni territoriali sparse per l’Italia. E i criteri di valutazione sono indubbiamente più efficienti. La Bossi-Fini è essenzialmente una legge che si occupa di immigrazione: ha dei limiti e andrebbe indubbiamente migliorata e attua- lizzata. Ma, per quanto riguarda l’asilo, per noi è stata un buon passaggio. Migliorando la qualità delle audizioni e portando la percentuale dei riconoscimenti della protezione al 40-50 per cento, un livello superiore a quello di molti altri paesi europei».
Lei, in quanto portavoce, ha un rapporto quotidiano con la stampa italiana. Come la giudica?
«Lavoro con i media italiani da oltre venti anni. E penso di poter dire che, negli ultimi tempi, c’è stato un appiattimento dell’informazione. È in corso una deriva sensazionalistica: si punta tutto sulla cronaca nera, cedendo alla morbosità e alimentandola in una sorta di circolo vizioso. Tutto ciò va a discapito sia dell’approfondimento della notizia sia della conoscenza di quelle che sono le grandi sfide del futuro. Sfide che dovranno affrontare i giovani di oggi quando saranno ai posti di comando. Ma avranno la formazione giusta, se non gli sono stati forniti gli strumenti e i parametri adeguati nell’età dell’apprendimento?».
Insomma, sarebbe utile che la stampa aiutasse gli italiani a capire che cosa sta succedendo, anche in campo internazionale.
«Sì. Nei nostri giornali e telegiornali, a raccontare ciò che sta veramente succedendo nel mondo viene riservato poco spazio: la maggior parte delle notizie sono quelle di cronaca nera o rosa, i gossip e quant’altro. Così l’Italia rischia di tagliarsi un po’ fuori dalle nuove tendenze mondiali, dalle nuove dimensioni della globalizzazione. Il pericolo è di non essere “contemporanei”. La politica, aiutata dai media, sta trasmettendo alla società l’idea sbagliata che per autoconservarsi occorra chiudersi, perché è così che si manterrebbero le proprie radici. E questo messaggio, oltre a essere perdente in assoluto nell’era in cui l’uomo grazie alle tecnologie ormai dialoga e si confronta con tutti in ogni angolo della terra, è anche profondamente in contrasto con la migliore tradizione italiana, che è basata sull’incrocio di popoli, sul crocevia di incontri che la fortunata posizione geografica nel cuore del Mediterraneo gli ha sempre permesso di avere. E su cui ha sviluppato finora quel patrimonio culturale davvero unico che tutti ammirano. Finora. Nel bene e nel male se gli italiani sono arrivati a essere quello che sono è perché sono sempre stati aperti agli altri. Cercare di inculcare la ricetta contraria, per la paura di voler salvaguardare a tutti i costi non si sa bene che cosa, vuol dire far morire l’anima e il DNA del nostro popolo: una filosofia non coerente con la nostra storia e completamente fuori binario rispetto a quanto sta avvenendo nel resto del mondo. Invece a Lampedusa…».
A Lampedusa?
«Abbiamo visto delle scene molto brutte: migranti lasciati dormire per giorni all’aperto, senza una coperta, senza un bagno. E pensare che di Lampedusa si era parlato come di un “modello”. Quel “sistema”, basato sull’avvistamento, sull’andare incontro ai barconi, sull’accoglienza nel centro, l’identificazione, l’informazione sui diritti e i trasferimenti fuori dall’isola, tra febbraio e marzo è saltato. Per questo si è creata l’emergenza, perché Lampedusa era diventata un grande parcheggio di migranti. I migranti, in questa circostanza, si sono sentiti non rispettati nella propria dignità. E questo nello stesso momento in cui quasi 700mila libici in fuga si sono riversati in Egitto e Tunisia: dove hanno trovato frontiere aperte e accoglienza. Non solo da parte delle autorità ma anche dei cittadini comuni: la gente è andata incontro a questi profughi offrendo cibo e altro. Invece in Italia, per 24mila tunisini e 11mila persone arrivate dalla Libia, stiamo assistendo a comportamenti e reazioni davvero esagerati. Per esempio i lampedusani, che hanno sempre avuto una tradi- zione di accoglienza, trovandosi 5.000 migranti nell’isola per settimane, in questa occasione hanno giustamente sentito una grossa pressione e si sono inferociti. Davvero una brutta pagina. A Lampedusa, qualche anno fa, in un solo anno sono arrivate 36mila persone, senza alcun problema. Negli ultimi mesi invece rallentando i trasferimenti dei migranti fuori dall’isola, si è creato un imbuto insostenibile e pericoloso. Ma è la politica che deve decidere che cosa fare».
La politica è sempre il punto dolente…
«E se ne vedono le conseguenze anche nella scarsa presenza di italiani negli organismi internazionali. Si tratta di capire qual è il ruolo che l’Italia vuole veramente giocare in questi organismi. Comunque, per avere un ruolo occorre avere un’idea del “sistema Paese” che investe in questo ambito: se non ci si impegna anche finanziariamente, se contemporanea- mente non si dà il giusto peso al multilaterale, se si continuano a tagliare i fondi alla Cooperazione e alle varie agenzie delle Nazioni Unite, se non si invogliano i giovani ai concorsi internazionali, poi non si può sperare di avere un peso sui tavoli che contano. E qui concludo con un consiglio proprio ai giovani: studiate l’inglese, non se ne può fare a meno. Questo è il vero tallone d’Achille degli italiani: la conoscenza a livello elementare dell’inglese non è sufficiente e taglia fuori intere generazioni dai nuovi posti di lavoro e decisionali del mondo globalizzato. Mia figlia 17enne l’ho mandata apposta nelle scuole internazionali: per darle l’opportunità e la libertà di poter un domani lavorare ovunque».
Altri consigli per l’Italia?
«Dare la cittadinanza agli immigrati che vivono in Italia da anni o che, addirittura, in Italia sono nati. Che parlano l’italiano benissimo, anche con gli accenti del posto. Che sono perfettamente inseriti nel contesto sociale, lavorativo, economico. Giovani che studiano nelle scuole italiane, che fanno per intero il percorso scolastico nelle nostre aule, spesso con voti superiori agli altri. Ma che poi, arrivati al momento del lavoro, si vedono impediti l’accesso ai concorsi pubblici e costretti loro malgrado a lavori manuali. Questo crea rabbia, senso di ingiustizia, tensione. Non aggiornare l’idea della cittadinanza con una legge adeguata, esclude una parte sempre crescente della società. Con rischi ovvii a tutti. Tranne ad alcuni politici».