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June 4, 2024
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L’addio pessimista di Martin Griffiths, il capo degli aiuti umanitari dell’ONU

Il responsabile dell'OCHA ha tenuto la sua ultima conferenza stampa al Palazzo di Vetro descrivendo un mondo sempre più inquietante

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 7 mins read

“È un vero privilegio per me aver ricoperto l’incarico che lascerò alla fine di giugno come capo dell’OCHA [l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari], il sottosegretario generale umanitario in questo edificio, in un momento in cui il mondo è riuscito a farci capire, con il vostro aiuto, quanto sia centrale questo servizio per le persone che hanno bisogno di noi”.

Ha iniziato così Martin Grffiths la sua ultima conferenza stampa al Palazzo di Vetro come capo dell’OCHA, prima del suo imminente ritiro per “ragioni di salute”.

E’ stato un incontro, quello con i giornalisti, in cui il diplomatico dell’ONU che deve letteralmente organizzare i soccorsi alle popolazioni colpite da guerre, terremoti e disastri umanitari di ogni genere, è apparso, sia nei toni che nelle parole usate, il più franco possibile.

“Quindi è stato un grande privilegio” ha ripetuto all’inizio: “Me ne andrò con alcuni importanti pezzi di saggezza per la mia vita futura. È stato anche un privilegio lavorare con voi, e spero anche che ciò continui in una forma o nell’altra man mano che andiamo avanti”.

Griffiths nella conferenza stampa ha fatto un panorama di tutte le maggiori crisi nel mondo dove, attualmente, più di 300 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria da parte dell’OCHA, “e ci siamo avvicinati a quella cifra in termini di pianificazione per il 2024 con molto rigore” ha detto Griffiths. “Abbiamo lavorato molto duramente nella comunità umanitaria, negli uffici di tutto il mondo, in tutti i paesi in cui vivono queste persone, per assicurarci che i piani che proponiamo abbiano davvero la priorità e riguardino davvero il salvataggio di vite umane”.

Martin Griffiths, Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordinator, briefs on the humanitarian situation in the Middle East. (UN Photo/Loey Felipe)

Il capo degli aiuti umanitari dell’ONU ha detto di aver agito in una situazione dove il denaro era più limitato. “Abbiamo ridotto la domanda da circa [56] miliardi di dollari l’anno scorso a 49 miliardi di dollari quest’anno”.  I piani di risposta umanitaria dell’OCHA sono in paesi o regioni in cui non sono stati solo i conflitti militari a creare le situazioni di crisi, ma anche gli effetti del cambiamento ​​climatico, che ha creato  bisogni umanitari crescenti.

Quindi in tutto ci sono 300 milioni di persone che hanno bisogno di soccorso. L’Onu può aiutarle tutte? “I nostri piani mirano a raggiungere circa 188 milioni di questi, la cifra più grande. Ad oggi, a metà anno, abbiamo ricevuto 8 miliardi di dollari. Quindi abbiamo finanziato il 17% dei nostri programmi in tutto il mondo” ha detto Griffiths, che poi a sfoderato le cifre di posti dove, “abbiamo il [13]%: la Siria. Forse il [16]%: il Sudan. A metà anno, non è mai stato così difficile, una situazione brutta come lo è adesso”.

Ed ecco che Griffiths passa al secondo punto del suo discorso: “Si tratta di un insieme di crisi che occupa tutta la vostra e tutta la mia attenzione e riduce la larghezza di banda disponibile per la discussione di quelle crisi che non sono in cima all’agenda, in cima ai cicli di notizie, in cima alla nostra agenda, in cima all’agenda dei donatori e coloro che sono coinvolti nella mia comunità. Ho iniziato a lavorare nell’OCHA e sono stato immediatamente inviato in Etiopia. Il Tigray era la crisi del momento in quel momento, a metà del 2021. Tigray, dove, anche adesso, le cifre di coloro che sono morti in quell’operazione non sono chiare ma sono enormi. Si stima che siano più di 200.000”. Già il Tigray, se ne ricorda qualcuno? “E’ stato un periodo terribile, terribile, e non ne abbiamo parlato di recente, eppure lì si specula di nuovo sulla carestia”.

Martin Griffiths (facing camera at right), Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordinator, holds his last press conference as Emergency Relief Coordinator at UN Headquarters. (UN Photo/Mark Garten)

Poi Griffiths ha iniziato a parlare di Afghanistan, dove i Talebani sono saliti al potere nell’agosto e nel settembre del 2021 “e ricordo, in particolare, come sicuramente anche voi, che mentre ciò accadeva, ci fu un forte terremoto ad Haiti, che fece a malapena notizia, anche se era un evento orrendo nel nostro emisfero”. Già, neanche il tempo di rispondere ad una crisi che già ne arrivava un’altra e poi un’altra.

In Afghanistan Griffiths ha detto di essere stato fortunato quando andò a nome del Segretario generale a Kabul per salutare i nuovi governanti.  “Ho trascorso una vita lavorando in Afghanistan, in un modo o nell’altro. E allora nutrivamo alcune speranze, avevamo effettivamente degli impegni scritti su come avremmo potuto andare avanti con i talebani – e quelle speranze sono state deluse. Gli editti contro le donne e le ragazze si sono succeduti uno dopo l’altro, e il grado e le questioni su cui la comunità internazionale si impegna con i talebani a nome del popolo afghano è ancora oggetto di discussione”.

Ma ecco che l’attenzione sull’Afghanistan veniva sostituita da un’altra crisi, di quelle enormi: l’invasione russa dell’Ucraina: “Nel febbraio 2022 e da tutto ciò che ci raccontava di disastri, bisogni, sfollamenti, tratta, violenza sessuale, crisi e distruzione di sistemi che proteggevano le persone per generazioni – e non è ancora finita, come sapete”.

Già, perché anche la guerra Russia-Ucraina è stata poi “sostituita” nell’attenzione del mondo “da Gaza e dal Sudan. E mentre parliamo oggi – e sono felice di parlare di alcune di queste questioni in modo più dettagliato – l’attenzione, i limiti della nostra attenzione, sono rivolti a queste grandi crisi: Gaza, Sudan, Ucraina, mentre Siria, Yemen, Haiti sono luoghi ancora di grande sofferenza”.

Griffiths ha detto ai giornalisti di lasciare questo incarico “con un senso di insoddisfazione del lavoro svolto, perché il mondo è un posto peggiore adesso rispetto a quando sono entrato nel 2021”.

Martin Griffiths, Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordinator, holds his last press conference as Emergency Relief Coordinator at UN Headquarters. (UN Photo/Mark Garten)

Quindi il capo dell’OCHA si è spinto a fare altri “uno o due commenti” sul mondo: “Ho trascorso gran parte della mia vita come mediatore, non solo come persona coinvolta nel mondo umanitario. Ho notato in questi ultimi tre anni nel mondo umanitario come la diplomazia umanitaria sia stata obbligata a prendere un posto in prima linea in assenza di molta diplomazia politica a causa delle divisioni e della geopolitica che affrontiamo oggi”.

Già, dove sono finiti i mediatori politici?  Quelli che servono a non far scoppiare le guerre o a farle terminare?

Quindi Griffiths con orgoglio ha parlato delle Nazioni Unite in grado, utilizzando la diplomazia e la mediazione umanitaria, “di ottenere un accordo sull’Iniziativa sui cereali del Mar Nero e sul Memorandum d’Intesa che le Nazioni Unite hanno firmato, il Segretario Generale ha firmato, con [ONU Segretaria generale per il Commercio e lo Sviluppo] Rebeca Grynspan, in testa, con la Federazione Russa sulle sue esportazioni”.

Cioè si trattava di un successo arrivato con un atto di diplomazia che dipendeva dal fatto che dei nemici potessero firmare un accordo “perché era per un bene più grande al di là di esso, per la sicurezza alimentare globale. La diplomazia umanitaria rappresenta per noi un’opportunità per fare del bene al mondo, ma anche, nella sua ubiquità, ci ricorda l’assenza della diplomazia politica classica”.

In Sudan, Griffiths ha lamentato ancora l’assenza di sforzi per fermare il conflitto. “Siamo disperatamente preoccupati per Al Fasher: lì sono a rischio 800.000 civili. Ieri ho parlato con Ramtane Lamamra, l’inviato personale del Segretario generale, che è uno dei mediatori più esperti al mondo oggi, e ha dei piani molto, molto chiari e buoni su come andare avanti…”

Ma la situazione umanitaria in Sudan è peggiorata, ed è quel luogo “in cui due uomini hanno sostanzialmente deciso che avrebbero risolto le loro divergenze combattendo, che avrebbero distrutto il loro paese, che ci troviamo in una situazione in cui, molto probabilmente , avremo fino a 5 milioni di sudanesi a rischio di carestia quando arriverà il prossimo rapporto, che sarà pubblicato nelle prossime settimane”. Griffiths ha fatto notare che mai si è avuto un numero così elevato di persone a rischio carestia e “per un conflitto evitabile”.

Quindi Griffiths ha affermato che non si riuscirà in questo modo a porre fine ai conflitti: “Speriamo per lo Yemen, ma in questo momento la situazione sta andando indietro. Ma è essenzialmente perché l’attenzione e l’impegno nell’uso della negoziazione e del dialogo per porre fine ai conflitti è un tratto, una norma, un impegno che ormai non è più una componente essenziale della diplomazia internazionale”.

Per Griffiths “l’impunità che accompagna la volontà degli uomini di impugnare la pistola per risolvere le loro divergenze non è mai stata così grande. La questione della protezione dei civili nel Consiglio di Sicurezza è stata una buona risoluzione, ma Dio sa che è un brutto mondo, Dio sa che è un brutto mondo” ha detto sconsolato.

Per descrivere questo “brutto mondo”, Griffiths ha invitato i giornalisti ad ascoltare il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Dr. Tedros Adhanom Ghebreyesus, sul tema del deliberato attacco alle istituzioni sanitarie in vari luoghi. Di ascoltare anche il Commissario generale dell’UNRWA (l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) Philippe Lazzarini sull’enorme numero di suoi colleghi uccisi e che ora si trova di fronte alla possibilità che la sua organizzazione venga classificata come terroristica.

“Quindi non stiamo risolvendo i conflitti. Non utilizziamo il dialogo laddove ci eravamo impegnati a utilizzarlo. E i fondatori delle Nazioni Unite nel 1945 – secondo le parole della Carta, che salvavano le generazioni successive dal flagello della guerra – li stiamo deludendo a destra, a sinistra e al centro”.

Parole tristi, sconsolate, quasi senza speranza. E le sole parole positive, Griffiths le ha riservate per quegli operatori umanitari che “stanno facendo un ottimo lavoro, eroicamente, sul campo, raccogliendo sostegno dove possono, ma non possono essere loro i salvatori: i salvatori di questo mondo sono persone che mettono fine alle guerre e costruiscono la pace”.

Quando si sono susseguite le domande dei giornalisti, quasi tutte chiedevano sulla situazione umanitaria a Gaza e Griffiths confermava quello che si scrive da mesi: una apocalisse.

Noi avremmo voluto porre una domanda a Griffiths, approfittando dello stato d’animo “franco” che avevamo ascoltato dall’alto funzionario dell’ONU. Avremmo voluto chiedergli se in questo momento sentisse la sua posizione di privilegio, arrivata dalla libertà. Già,  lui ora è libero di poter dire cosa, secondo lui, non abbia funzionato nel sistema ONU; libero di poter dire chi ha messo il bastone più lungo tra le ruote dell’azione umanitaria dell’ONU; libero di puntare il dito contro chi ancora sta impendendo l’azione delle Nazioni Unite di portare aiuto nel mondo e che non può essere svergognato abbastanza da persone come lui “per non condizionarne il lavoro”. Ecco, a Mr. Griffiths, avremmo chiesto di rivelare i governi dei paesi membri dell’ONU che, secondo lui, sono i maggiori responsabile del caos che abbiamo nel mondo. Se avessimo avuto l’opportunità di fargliela questa domanda nella sua ultima conferenza stampa al Palazzo di Vetro, come avrebbe risposto Griffiths?

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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