Nelle celebrazioni di questa settimana sulla libertà di stampa culminate con il Word Press Freedom Day festeggiato anche al Palazzo di Vetro dell’ONU, un enorme “elefante” è rimasto indisturbato in ogni sala. Una domanda lo avrebbe fatto uscire subito: “Journalism is not a crime?”: allora perché Julian Assange resta in un carcere inglese in attesa di essere estradato negli USA? Se “il Giornalismo non è un crimine”, chi ha deciso che il cittadino australiano fondatore di Wikileaks non è un giornalista, non è nemmeno un editore (“Publisher), ma è una spia? Al servizio e pagato da chi? Dalla verità? Allora perché criticare Putin quando arresta con l’accusa di spionaggio Evan Gershkovich, giornalista del Wall Street Journal.
Ieri è uscita l’annuale classifica di Reporters Withour Borders che misura la libertà di stampa nel mondo: la Norvegia resta in testa, seguita dall’Irlanda e gli altri paesi scandinavi, gli ultimi in classifica i soliti noti: Eritrea, Iran, Vietnam, Cina, Corea del Nord. Gli USA? La democrazia che inventò il “First Amendment”, che con la potenza della sua libertà di stampa arrivò a far dimettere un presidente, oggi in classifica è 45sima, messa peggio della nostra Italia (41), che poverina tra le democrazie occidentali è stata a lungo un fanalino di coda.
Se Assange dovesse essere processato e addirittura condannato, gli USA rischiano in quella classifica di ritrovarsi accanto a paesi come la Russia, che hanno il grilletto facile nell’accusare i giornalisti di essere spie – quando va bene-, di ammazzarli quando va peggio…
Molti americani, soprattutto gli elettori democratici che avrebbero voluto Hillary Clinton presidente, detestano Assange, per quella volta che nel 2016, rendendo pubblici con Wikileaks le email della campagna presidenziale della prima donna candidata alla Casa Bianca, ne danneggiò la corsa elettorale contro Trump. Comprendiamo la rabbia, ma non ci adeguiamo al silenzio su quel che di molto peggio potrebbe accadere con la condanna di Assange.
Intanto aver diffuso le email di Hillary non è tra i “reati” considerati dal Dipartimento di Giustizia per l’incriminazione di Assange, che invece verrà processato per i documenti del Pentagono del 2010 pubblicati su Wikileaks che rivelavano le nude e crude verità delle guerre in Iraq e Afghanistan, e sui documenti diplomatici segreti del Dipartimento di Stato che imbarazzarono l’allora Segretario di Stato Clinton e il presidente Barack Obama.
La questione molto più pericolosa, non è se Julian sia una persona “antipatica” con cui non andremmo a cena, ma se una sua eventuale condanna negli Stati Uniti dopo l’incriminazione perseguita dal Dipartimento di Giustizia, danneggi la democrazia e quindi tutti noi per le sue potenziali e terribili conseguenze sulla libertà di stampa protetta dal Primo Emendamento della Costituzione USA.
Ieri due manifestanti hanno interrotto il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il giornalista del Washington Post David Ignatius durante un evento a Washington per celebrare la libertà di stampa. I due stavano iniziando a parlare indifferenti al grande elefante che c’era nella stanza ma di colpo è cominciata la protesta. “Scusateci, non possiamo celebrare questa giornata senza chiedere la libertà di Julian Assange” hanno gridato un ragazzo e una ragazza salendo sul palco e mostrando dei cartelli “Free Assange”. Quando i giovani sono stati portati via con la forza dalla sicurezza, si è sentito Blinken, che aveva il microfono ancora acceso, dire alle guardie del corpo “take it easy” (andateci piano ragazzi, insomma non fategli del male). “Siamo qua per celebrare la libertà di espressione e la abbiamo appena sperimentata”, ha commentato il columnist del WP Ignatius; già sarebbe stato troppo imbarazzante usare le maniere forti contro chi stava esprimendo l’opinione che Assange non dovrebbe essere processato, proprio nel giorno in cui si pretendeva di difendere la libertà di stampa.
Protesters with @codepink disrupted an event with U.S. Secretary of State Antony Blinken Wednesday, on World Press Freedom Day, to demand the release of jailed WikiLeaks founder Julian Assange. https://t.co/2w3ycJ8No7 pic.twitter.com/DDLx6F7JWy
— Democracy Now! (@democracynow) May 4, 2023
Ogni governo di qualsiasi nazione nel mondo cerca di impedire che i suoi segreti vengano diffusi, sulla stampa come su internet. Ma negli Stati Uniti, e la vicenda dei “Pentagon Papers” agli inizi degli anni Settanta lo ribadì, c’è una Costituzione che vieta categoricamente a chi detiene una funzione pubblica di impedire ai giornalisti di disseminare una informazione, anche e soprattuto quando chi è al potere vorrebbe mantenerla segreta.
Ovviamente il governo potrà severamente punire con la legge quel funzionario trovato colpevole di aver fatto “gocciolare” (“leak”) ciò che doveva restare segreto. Infatti Daniel Ellsberg, che svelò i Pentagon Papers sulla guerra del Viet Nam, sarebbe finito all’ergastolo se non avesse avuto la fortuna di avere come accusa il governo di Nixon: nel cercare le prove per incriminarlo, la Casa Bianca commise dei reati provocando il “mistrail” (annullamento del processo). Solo per questo Ellsberg (che attenzione per il ruolo non è Assange, semmai la sua esperienza può essere equiparata a quella di Edward Snowden) ha potuto vivere fino ad oggi liberamente per poter ancora spiegare i motivi della sua scelta.

Quindi, come decise la Corte Suprema già contro Nixon, la Casa Bianca e qualunque forma di “government” degli Stati Uniti (anche il Congresso così come la stessa Corte Suprema fino al sindaco o consigliere comunale della più piccola città d’America)non può arrestare o anche solo impedire a un giornalista e/o al suo editore di pubblicare un “segreto” di cui è venuto legalmente in possesso. Legalmente? E quando avverrebbe illegalmente? Quando il giornalista – o il suo Publisher – ha lui stesso “sottratto” il documento segreto del governo; ma se invece ne viene a conoscenza grazie al “leak”, il “Primo Emendamento” impedisce al governo di interferire con la decisione del giornalista di pubblicarlo o meno quel documento “confidential”.
Il governo degli USA dovrà avere già quella prova che dimostri senza ombra di dubbio che sui documenti “top secret” pubblicati da Wikileaks (e poi anche dal NYT, the Guardian, Washington Post, e centinaia di altri giornali) Julian Assange ebbe un ruolo “attivo” nel procurarseli, cioè che sia stato lui il “mandante” dell’allora analista militare d’intelligence Chelsea Mannning, altrimenti questo processo “non s’ha da fare”. (Nell’intervista del 2011 di Julian Assange a Sixty Minutes il fondatore di Wikileaks si appellava già alla protezione del First Amendment)
In questi giorni abbiamo continuato a farla questa domanda: Assange è un giornalista, un Publisher, o una spia? L’abbiamo posta al portavoce del Segretario Generale dell’ONU e anche, durante la conferenza stampa dell’UNESCO, a Guilherme Canela De Souza Godoi, Chief of the Section of Freedom of Expression and Safety of Journalists (vedi video sopra). Dalle risposte, l’elefante ci appare ancora nella stanza.