Sono di oggi le dichiarazioni di Stephanie Williams, Special Advisor sulla Libia per il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, che, in un comunicato stampa dopo una 10 giorni sul campo, dà voce alla “sincera speranza di molti cittadini che le elezioni siano parte della soluzione e non del problema”. Sia la Williams che Guterres hanno invitato le istituzioni interessate a “onorare e sostenere la volontà dei 2,8 milioni di libici che si sono registrati per votare”, ammonendo le parti coinvolte a “non strumentalizzare le attuali difficoltà nel processo elettorale al fine di minare la stabilità dei progressi conseguiti in Libia negli ultimi 15 mesi”, a seguito del cessate il fuoco intervenuto il 20 ottobre 2020.
Eppure, non si comprende a pieno il significato dietro l’ordine dell’Alta Commissione Elettorale libica che ha sciolto i suoi comitati lo scorso 20 dicembre rinviando il voto al 24 gennaio, se non alzando lo sguardo oltre le motivazioni ufficiali attestanti la debolezza delle confuse leggi elettorali, e riconoscendo la pragmatica contrarietà al voto di attori interni ed esterni. Ne sono manifestazioni sintomatiche tanto le violenze degli ultimi giorni, quanto il subbuglio scaturito dall’accettazione della candidatura di Saif al-Islam Gheddafi. “Un cognome ancora divisivo ma in grado di catalizzare un consenso importante, motivo che spiega l’ostilità di rivali come l’attuale premier del Governo di Accordo Nazionale (GNA) a Tripoli, Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh e il capo della forza militare che controlla la Cirenaica, il generale Khalifa Haftar” ci spiega Daniele Ruvinetti, esperto di geopolitica e Senior Advisor alla Fondazione Med-Or di Leonardo. “Esternamente, chi guarda con favore a Gheddafi è sicuramente la Russia, motivo che spiega la speculare avversione americana. Internamente, il suo consenso si concentra storicamente nel sud, dove ha presentato la sua candidatura (Seba), dove si pensa che sia rifugiato (Zintan), ma anche a Sirte, Zliten e altre zone a macchia di leopardo”. Insomma, il figlio dell’ex presidente libico eliminato su mandato francese (e connivenza italiana) nel 2011, non pare affatto una mina vagante. Al contrario, accumula seguito e rivali, rammentandoci di come non basti l’accusa di crimini contro l’umanità della Corte Penale Internazionale per far breccia nell’elettore libico. Quasi si potesse presumere l’assenso silenzioso ai valori occidentali di tutte le fette di una non-nazione che in 42 anni di dittatura del fu Colonnello ha comunque scampato la disintegrazione odierna.
1/2 I met today with registered Presidential Candidate, Mr. Agila Saleh in Al-Quba. I welcomed his commitment for the continuation of the electoral process, including the need for all candidates to respect a level playing field. pic.twitter.com/T2Nvw2GMvF
— Stephanie Turco Williams (@SASGonLibya) December 23, 2021
Anche da queste quasi elezioni escono vincitori e vinti, tassativamente esterni perché è fuori dalle sabbie nordafricane che si gioca la sovranità dell’ex quarta sponda italiana. Tautologia permettendo, i grandi sconfitti sono gli stati europei che avevano chiamato alle urne il paese il 15 novembre scorso. Non solo perché i due principali auspici della Conferenza di Parigi – la necessità di celebrare elezioni entro il 24 dicembre, e l’invito a soldati e mercenari stranieri ad abbandonare il territorio – non si materializzeranno affatto sotto l’albero di Natale. Ma anche perché l’importanza del summit è stata inversamente proporzionale a quella di chi l’invito a quel vertice lo aveva declinato in principio: Turchia e Russia. Uniche vere vincitrici del non voto, poiché mantengono intonse il ruolo di protagoniste assolute nel caos libico con la capacità di proiettare influenza su, rispettivamente, Tripolitania e Cirenaica. Francia, Italia, e Germania dimostrano invece l’attuale impalpabilità di un fronte comune europeo che abbia reale presa e influenza sul puzzle libico. In attesa che il Trattato del Quirinale esperisca i suoi effetti, forse.
Eppur qualcosa si muove, o s’è mosso in quelle stesse sabbie ieri. L’alleanza forgiata tramite l’incontro tenutosi mercoledì a Bengasi fra Ahmed Matig e Fathi Bashaga, ex membri del governo di Tripoli, entrambi di Misurata, e il generale Haftar, rappresenta forse la vera notizia di questi giorni perché “tale blocco vuole mettere all’angolo Dbeibeh ed escluderlo dall’interlocuzione con Misurata, cioè la Sparta libica, il braccio armato di Tripoli”. Non solo. Secondo Ruvinetti quest’ultimo sviluppo “pone in prospettiva il tema della concertazione di interessi fra locali, a cui gli attori esterni, volenti o nolenti, dovranno necessariamente accomodarsi e che, a sua volta, potrà essere ben cavalcato dall’ONU”.
Bene per turchi e russi insomma, ma non benissimo. Se da un lato le due potenze, spalleggiandosi, salutano con favore il rinvio del voto, confermando essenzialmente un status quo vantaggioso, dall’altro lato, non potranno prescindere nel breve termine dall’abbuonarsi questo triumvirato. Un consorzio, fra l’altro, benedetto dagli americani che provano a squadernare gli equilibri e i rapporti di forza, finora troppo funzionali ad Ankara e Mosca.
Contro la retorica dei buoni e cattivi, Turchia e Russia si sono effettivamente fatte forza vicendevolmente, al fine di ritagliarsi spazi di influenza che ridimensionassero la pressione esercitata da Stati Uniti e compagnia europea, sotto l’egida ONU. Desiderio irrefrenabile di rompere le uova nel paniere libico senza una buona ragione? Più vero per Russia che per Turchia.
Sebbene l’Orso russo sembri a volte procedere in ordine sparso in Libia mancando di una tattica ben precisa, in realtà portare avanti dialoghi paralleli e separati con Dbeibeh, Haftar, e ora strizzare l’occhio a Gheddafi, assicura al Cremlino una polizza sulla permanenza militare in Libia dei suoi mercenari targati Wagner, strumento fondamentale per rivendicare un ruolo attivo e una presenza inaggirabile per qualunque altra potenza che voglia inserirsi nella regione. Sognando l’attenzione (e preoccupazione) americana.
La principale ragione che porta la Turchia in Libia, invece, non è la Libia. Almeno non propriamente. È il mare. L’obiettivo di Ankara non è tanto quello di occupare la Tripolitania, ma, come confermato da Ruvinetti, assicurarsi un governo amico a Tripoli che mantenga in vita l’accordo per la delimitazione delle frontiere marittime e zone economiche esclusive (ZEE), siglato il 28 novembre 2019 tra Recep Tayyip Erdogan e l’ex premier del GNA, Fayez Al Sarraj. Sì, perché il memorandum consente alla potenza anatolica di legittimare le proprie rivendicazioni sulle acque cipriote, insidiandosi così nel cuore del Mediterraneo orientale, fulcro delle mire strategiche turche volte a recuperare una dimensione tri-continentale (cioè afro-eurasiatica) di impronta imperiale, sul solco della dottrina della Patria Blu. Non è quindi un caso che il 18 dicembre scorso, una delegazione cirenaica della Camera dei rappresentanti di Tobruk, composta da uomini molto vicini ad Haftar, abbia voluto rassicurare l’ex capo di Stato maggiore della Marina turca Cihat Yaycı, consigliere militare del presidente Erdoğan e architetto dell’accordo del 2019, sul fatto che l’intesa sarà salva anche in mano haftariana.
Presi dai bilanci di fine anno, se dovessimo comporne uno sulle Libie del 2021, dovremmo forse iniziare col riconoscere che ricomporre un unico spazio libico, in destrutturazione da 10 anni, solo attraverso simposi internazionali (come fu quello di Berlino del 2020 e ora di Parigi) appare inverosimile tanto quanto il rispetto della prossima tornata elettorale, rinviata al 24 gennaio. Non di sole elezioni, tuttavia, vivono i leader locali. Con le ultime mosse questi tentano di rimescolare le carte e – forse per velleità, forse per disperazione – strappare di mano agli attori internazionali lo scettro del proprio destino. A Turchia, Russia, e USA piacendo.