Si è appena chiuso il primo incontro della Lega delle Democrazie, un summit virtuale organizzato dall’amministrazione Biden, promosso a gran voce già dai tempi della campagna elettorale nel dicembre scorso. I temi ufficiali del vertice sono stati quelli di perorare la causa globale della democrazia attraverso la difesa contro gli autoritarismi, la lotta alla corruzione, e la promozione del rispetto dei diritti umani. Cavalli di battaglia classici della retorica statunitense tout court, ma soprattutto bideniana, in un momento in cui il nuovo esecutivo democratico vuole segnalare un distacco netto dalla narrazione del suo predecessore Donald Trump, considerato troppo simpatetico allo charme dispotico di Putin, troppo timido nel rivendicare i valori democratici e il rispetto delle minoranze nel confronto dialettico con Xi Jinping, e troppo sprezzante nel (non) curare i rapporti con gli alleati del Vecchio Continente.
Il summit si inserisce in settimane già tese nelle relazioni con le due principali potenze avversarie degli Stati Uniti. Cina e Russia – messe spalle al muro per il boicottaggio diplomatico americano delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022 l’una, e per lo stallo determinatosi con il bilaterale tra Joe Biden e Vladimir Putin sulla crisi ucraina l’altra – si erano già premurate di anticipare e screditare le critiche, puntualmente giunte, provenienti dalle conclusioni del vertice.
Lo scorso fine settimana, il Consiglio di Stato cinese, principale organo di governo, ha tenuto il proprio Forum internazionale virtuale sulla democrazia, pubblicando poi un Libro Bianco intitolato “Cina: la democrazia che funziona”. Qualche giorno dopo è toccato a “Lo stato della democrazia negli Stati Uniti”, un rapporto pungente rilasciato dal Ministro degli Esteri cinese volto a “mettere a nudo l’ipocrisia della diplomazia democratica” statunitense, “le carenze e gli abusi” della stessa, e “i danni derivanti dall’esportazione” del brand democratico made in USA. Di più. Wang Wenbin, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ha definito l’iniziativa “un pretesto per istigare il confronto tra Stati che passerà alla storia solo come manipolazione della democrazia”.
A Mosca il tono è rimasto altrettanto duro, con Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo, che alla fine di novembre ha tacciato il summit come “cinico e patetico”, perché “gli Stati Uniti rivendicano il diritto di decidere chi è degno di essere chiamato democrazia e chi no”. Come se non bastasse, gli ambasciatori cinese e russo hanno rilasciato una dichiarazione congiunta accusando l’iniziativa di essere “antidemocratica”, e l’amministrazione Biden di adottare una “mentalità da guerra fredda” che “alimenterà il confronto ideologico e una spaccatura nel mondo”.
Scendendo sotto la pelle dei proclami, nelle intenzioni originarie del Presidente americano e del Segretario di Stato Antony Blinken, la Lega delle Democrazie aveva probabilmente ben altra conformazione: un ristretto forum di nazioni di matrice eterogenea (poco importa il regime) a cui ricordare la minaccia cinese quale imperativo strategico per il mantenimento della pax americana, e da avvitare a sé prima di spedirle all’arrembaggio nella stretta, già in atto, nei mari dell’Indo-Pacifico. Quasi ad assistere al lancio del martello, con pedana Washington e vettore 39° N e 115° E.
Stante l’impossibilità di unire i paesi dell’Asia centrale in una sola alleanza militare avversa al Dragone (poiché animati da posture confliggenti verso la Repubblica Popolare), il vertice è diventato l’occasione imperfetta di approfondire coalizioni diverse, con specifici obiettivi che vadano oltre lo spauracchio cinese, sanando altri nervi (s)coperti del dettato geopolitico della Superpotenza.
In ordine sparso.
Primo: attrarre a sé, con tattica inversa, i paesi ancora incerti, financo riluttanti, nell’assumere atteggiamento ostile a Pechino (Vietnam e Pakistan).
Secondo: rassicurare l’allineamento con i paesi dell’Europa di mezzo (Polonia, Romania e Paesi Baltici) sul persistente contenimento di Mosca, postulato dell’esistenza ieri e sopravvivenza oggi di questi ultimi, sin dalla caduta del Muro di Berlino.
Terzo: tornare a esercitare il riscoperto fascino della “leadership of the free world” sui vecchi alleati occidentali, bistrattati dall’ex Presidente e non compatti sia sul fronte russo che su quello cinese (Unione Europea e Anglosfera).
Quarto: punzecchiare con messaggi dedicati alcune potenze escluse, di cui Washington soffre l’attivismo, l’espansione o l’influenza regionale (Turchia e Iran).
Eppure, a detta di Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, l’invito come Stato partecipante “non deve essere inteso come un marchio di approvazione sul proprio approccio alla democrazia, né l’esclusione un marchio di disapprovazione”. Ma delle due l’una: o Biden ha rinnegato il proposito originario di organizzare una Lega che riunisca le democrazie europee e asiatiche come prospettato sin dal principio, oppure, a buon diritto l’Economist titola “Il Summit di Joe Biden per la Democrazia non è poi così tanto democratico”. E allora il vertice è, sopratutto, altro. Uno strumento utile a Washington per richiedere aggiustamenti agli Stati partecipanti, non tanto di democrazia, quanto di traiettoria diplomatica, al fine di rientrare nelle grazie americane.
Impossibilitati a trattare tutti i 110 paesi invitati (inclusa l’Unione Europea senza l’Ungheria), passiamo in rassegna i presenti e gli assenti che più saltano all’occhio e le relative implicazioni geopolitiche. Così, l’inclusione di Taiwan dà contemporaneamente manforte a Taipei e uno schiaffo al Dragone, furioso per la superbia americana che disconosce la sua pretesa secolare di reintegrare la “provincia ribelle” nel suo spazio naturale. Così pure il Pakistan, invitato a partecipare nonostante risulti al 37° posto nella classifica stilata da Freedom House sullo stato delle democrazie nel mondo, e qualificato soltanto come “parzialmente libero”, ma troppo importante nella guerra con la Cina. Sebbene la Repubblica Popolare rappresenti probabilmente l’unica valida potenza di riferimento per un paese che ha visto il suo nemico esistenziale, l’India, rifugiarsi di recente nelle braccia statunitensi, Washington evidentemente non considera Islamabad già perduta. Speculare considerazione vale per il Vietnam che, con tattica simmetrica, è stato escluso dal multilaterale proprio perché troppo timido nel prendere una posizione apertamente filo-atlantista.
In Europa – oltre alla Bielorussia, palesemente esclusa per la ritrovata russofilia del regime Lukashenko – emerge affascinante il combinato disposto fra l’inclusione della Polonia e l’esclusione dell’Ungheria, entrambi regimi niente affatto democratici. L’una, avamposto per eccellenza della nuova linea rossa fra ex Unione Sovietica e NATO, avrà sempre le simpatie americane per la sua intrinseca russofobia. L’altra, ben disposta verso l’Orso, (non foss’altro che, per i Carpazi, non ha mai temuto invasioni da Est) è mal vista da Washington.
E che dire dell’Iraq, addirittura 29esimo nella classifica di Freedom House, bollato come paese “non libero”? L’America gli garantisce un posto al tavolo delle democrazie per segnalare all’Iran che, malgrado il graduale abbandono delle truppe statunitensi in corso d’opera, non intende lasciare quello spazio in mani persiane. Infine la Turchia, potenza amata e odiata dagli Stati Uniti in Medio Oriente (con sfumature tattiche diverse), ma sacrificata questa volta per mantenere credibilità con l’Unione Europea. Tanto più dopo l’accusa americana di autocrazia al presidente Recep Tayyip Erdoğan.
In nuce: un vertice che testimonia la necessità statunitense di mantenere le alleanze del passato (“quelli che erano i nostri alleati”), costruirne di nuove con i paesi oggi più decisivi nel bilanciere internazionale, e limitarne altre, potenzialmente pericolose. Con lo sguardo fuori, verso chi non c’era, e al futuro, verso i mari cinesi. In nome di una democrazia a contenuti e geografie variabili.