Una saga infinita quella sul Tubo della Discordia, lanciato nel 2015 per collegare direttamente il mercato russo a quello tedesco e da lì raggiungere il resto dei clienti europei. Aggirando l’Ucraina, ça va sans dire, come da copione tattico del Cremlino. Conosciuto ai più come Nord Stream 2, mentre in esclusiva per i polacchi è il “gasdotto Molotov-Ribbentrop bis”. Sì, perché la percezione funesta di Varsavia su questa gigantesca infrastruttura (una capacità annuale di 55 miliardi di metri cubi) è paragonabile a quella del patto sovietico-germanico che nel 1939 aprì le porte alla doppia invasione e alla spartizione della Polonia. L’aumento della dipendenza energetica tedesca dalla Russia come parte del fenomeno più ampio teso ad approfondire i legami fra le due potenze, incarna l’incubo che ormai da anni tiene svegli, all’erta e sul piede di guerra gli americani e gli ex Stati satelliti dell’Impero sovietico, oggi cuore strategico dell’Europa di mezzo. Alias Polonia, Romania e Baltici. Non a caso, Varsavia è già impegnata nella costruzione di un’alternativa, il Baltic Pipe, un nuovo corridoio di approvvigionamento gasiero che, collegando i giacimenti della piattaforma norvegese nel Mare del Nord alla Danimarca e alla Polonia, vuole rimpiazzare i rifornimenti russi, succhiandone via parte dell’economia indotta.
Priorità strategica statunitense è scongiurare l’affermarsi di una forza egemone in Eurasia potenzialmente in grado di sfidarne la supremazia. Priorità esistenziale dell’Europa orientale è non essere divorata à nouveau dentro lo spazio russo. Nord Stream 2, invece, vira nella direzione opposta, concretizzando il pericolo di un mostro bicefalo, metà Aquila (Germania), metà Orso (Russia). Queste le ragioni profonde delle ultime mosse schizofreniche degli attori in gioco. Ricapitoliamo. L’annoso braccio di ferro fra Donald Trump e Joe Biden da un lato, e Angela Merkel dall’altro – giocato a colpi di sanzioni americane a uomini e imprese coinvolti nel progetto – sembrava essersi risolto a luglio scorso attraverso un accordo tra l’amministrazione a stelle e strisce e la cancelleria federale. Il nulla osta al gasdotto in nome di un impegno tedesco più rigoroso in funzione anticinese nei mari dell’Indo-Pacifico, oggi il più importante teatro di tensioni secondo i laboratori strategici di Washington. E invece no. Il Congresso americano – più scettico sul tubo di quanto non sia l’esecutivo Biden – non ne ha voluto sapere, al punto che a fine novembre ha imposto nuove sanzioni e costretto il governo Merkel a supplicare un ammorbidimento della postura statunitense attraverso un negoziato di cui non conosciamo ancora gli esiti. Il documento, rilasciato da Axios, volge a rassicurare gli americani sul sostegno economico di Berlino alla sicurezza energetica dell’Ucraina (valore: €150 miliardi), e sulla tolleranza zero dei tedeschi se il Cremlino utilizzasse strumentalmente l’oleodotto come leva di pressione e influenza. Come se non l’avesse già fatto – direbbe giustamente il consumatore europeo. Negli ultimi mesi il colosso russo Gazprom si è divertito a far oscillare drammaticamente il prezzo del gas, chiudendo e riaprendo i rubinetti petroliferi a piacimento del Cremlino, proprio al fine di accelerare la messa in servizio del nuovo oleodotto. Con i governi europei disperatamente corsi al riparo contro il caro bollette.
Se la fu Signora d’Europa non era disposta a cedere sulla realizzazione del gasdotto terminato a settembre 2021, il nuovo governo di Olaf Scholz si è recentemente mostrato più timido nell’appoggiare l’attivazione dello stesso, adducendo ritardi burocratici a livello nazionale ed europeo. I dubbi sollevati in punta di diritto celano, però, la difficoltà del nuovo cancelliere di trovare una quadra tra le forze centrifughe all’interno della nuova coalizione verde-giallo-rossa a sostegno del suo esecutivo (in questo dossier soprattutto verde), quelle che invece naturalmente propendono per una continuità tattica col cancellierato precedente, e quelle provenienti da Oltreoceano. Così, questa settimana, la neoministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, ha tenuto a sottolineare come l’entrata in funzione dell’infrastruttura russo-tedesca non possa essere approvata allo stato attuale “perché non soddisfa i requisiti del diritto europeo in materia di energia e permangono altre questioni di sicurezza legate alla sua costruzione”. L’Agenzia federale preposta alle reti (Bundesnetzagentur) ha quindi sospeso nei giorni scorsi l’iter di certificazione, già fortemente rallentato in precedenza da altri cavilli normativi di cui difficilmente la Germania non era già a conoscenza, ma che ad oggi giocano a favore dell’ambiguità (merkelismo?) che il nuovo governo vuole riservarsi. Non solo per tranquillizzare il patron americano – forse anch’esso ancora indeciso sull’atteggiamento più o meno ostativo da prendere tra presidenza e Congresso – ma anche per motivi di coesione interna.
Il successo dei Verdi, che alle elezioni di settembre 2021 hanno ottenuto il 15% diventando terzo partito, è imputabile a un’attenzione gradualmente maggiore dell’opinione pubblica d’Oltralpe alle battaglie ecologiste. Coevo alle urne di questo autunno, infatti, è un sondaggio che ci restituisce una Germania convinta che la questione ambientale sia la più rilevante e cogente dei nostri tempi. Effetti collaterali di una società sempre più dedita al benessere. Ne segue che la transizione alla green economy e l’inaccettabilità degli idrocarburi come fonte di energia pulita si siano fatti strada fra i temi principali della nuova agenda di governo, apparentemente scardinando il diktat merkeliano sull’intoccabilità di Nord Stream 2. Sorge quindi la domanda se il nuovo esecutivo si stia allontanando oppure no dalla convinzione perentoria della Germania degli ultimi anni secondo cui il tubo non si tocca. Perché se da un lato le storiche intrinsechezze fra Berlino e Mosca trascendono il succedersi dei governi, e con essi l’ideologia politica che rappresentano sin dalla Guerra fredda, dall’altro i valori e le aspirazioni della collettività tedesca informano e forgiano la traiettoria futura della nazione.
Un dato ineludibile, che andrà monitorato, ma al momento difficilmente in grado di stravolgere l’approccio aperturista al raddoppio del gasdotto Nord Stream 1. Anche perché la Germania resta, innanzitutto, un paese economicista e utilitaristico, centrato sul mantenimento di una qualità della vita alta e di un welfare stabile. Che le preoccupazioni ambientali possano soprassedere alla redistribuzione di ricchezza interna derivante dalla messa in servizio dell’oleodotto è quindi alquanto improbabile. Che la retorica green si faccia più vivace, che i proclami e le rappresaglie in favore di un allentamento delle pressioni russe sull’Ucraina si rincorrano, e che i tempi burocratici si allunghino è invece indubbio. Fino a quando gli americani daranno, malvolentieri, il beneplacito definitivo, in cambio di un sacrificio ben più gravoso.