Le comunità di rifugiati Rohingya nel Regno Unito e negli Stati Uniti si sono unite per far causa a Facebook, un social già criticatissimo che avrebbe favorito il genocidio in Myanmar. Gli avvocati del gruppo etnico, prevalentemente mussulmano, hanno dato inizio alla causa nello stato della California, e sperano di ricevere un risarcimento di $150 miliardi dalla multinazionale di Mark Zuckerberg. Una causa simile verrà presto lanciata dagli avvocati britannici.
Pare che la diffusione di messaggi d’odio sul social, non censurati dalla compagnia, abbia giocato un ruolo fondamentale nell’uccisione di migliaia di Rohingya nel 2017 – l’Human Rights Watch calcola 13.000 morti – e nella fuga di oltre 700.000 persone, molte delle quali si sono rifugiate nel vicino Bangladesh.
La rivendicazione dei rifugiati Rohingya è supportata dai documenti consegnati al Congresso americano da un’ex impiegata di Facebook, Frances Haugen, quest’autunno. Questi documenti avrebbero evidenziato il ruolo di Facebook nel genocidio e, in generale, la disinformazione ed i messaggi d’odio che girano sul social stesso.
Non è solo la comunità Rohingya stessa, supportata dai suoi avvocati, a credere di meritare una somma in denaro da parte di Facebook, ora Meta. Già nel 2018, infatti, un rapporto delle Nazioni Unite aveva evidenziato le responsabilità del social network nell’accaduto, il cui algoritmo aveva evidenziato i commenti d’odio. All’epoca, la compagnia si era rifiutata di assumere una quantità sufficiente di lavoratori del Myanmar che potessero moderare i commenti più violenti.
Martedì, Meta ha fatto uscire una dichiarazione che leggeva: “Siamo sconvolti dai crimini commessi contro le persone Rohingya in Myanmar.” Hanno poi ingaggiato un team di persone birmane, iniziato ad utilizzare nuove tecnologie per filtrare i messaggi d’odio sulla piattaforma e bannato l’esercito dall’accedere al social.
“I documenti di Facebook danno ai difensori dei diritti civili le munizioni che necessitavano per fare il loro lavoro,” ha detto Peter Romer-Friedman, avvocato di Washington coinvolto nella causa.