Sotto il cielo del mondo intero regna una gran confusione riguardo l’aumento delle temperature del pianeta. Da un lato c’è una massa rumorosa che si affida agli slogan di Greta del tipo “Per avere un mondo migliore bisogna creare un mondo migliore” senza dire come, soprattutto, a cui aggiungono spesso e volentieri belle invocazioni, auspici, suppliche, appelli, richiami, reprimende, invettive, preci, implorazioni, condanne e, per finire, rimproveri. Poi ci sarebbero alcuni scienziati di cui si trova scarsa traccia sui media che bisognerebbe ascoltare.
Il primo è il professor Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica nel 1984, insignito l’8 settembre 2020 del prestigioso Global Energy Prize per “la promozione della sostenibilità nell’uso dell’energia nel campo delle scorie nucleari e della pirolisi del gas naturale”, il quale ha affermato che “i fossili ad emissioni zero sono un’opzione percorribile. Abbiamo recentemente dimostrato con successo che è possibile trasformare il gas naturale, grazie alla reazione CH4 => H2 + C, direttamente in idrogeno a temperatura ragionevole”. In tal modo si ottiene, secondo Rubbia, della buona combustione pulita a partire dal gas naturale a costi accettabili, che potrebbe essere eventualmente estesa anche al carbone.
Manca però ancora una risposta adeguata del mondo industriale a questa buona opzione di fossili ad emissioni zero. La seconda fonte è il professor Franco Prodi, noto accademico e meteorologo italiano, studioso di fisica dell’atmosfera, meteorologia e climatologia, professore ordinario di Fisica dell’atmosfera presso l’Università degli Studi di Ferrara. Il suo campo di ricerca principale è la fisica delle nubi e delle precipitazioni, con particolare riguardo alla formazione della grandine, alla fisica dell’aerosol atmosferico e radarmeteorologia dei temporali grandigeni, alle previsioni di nowcasting, alla microfisica delle nubi e alla meteorologia da satellite.
Con queste credenziali, lo scorso 11 agosto, in una bella intervista al Foglio ha evidenziato alcuni aspetti della dibattutissima questione climatica. E l’inizio dell’intervista è tranchant, laddove chiarisce che l’ultimo report dell’Onu, quello redatto dagli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, non lascia intravedere molti spazi: il tempo sta finendo, ed è l’ultima chiamata per combattere il surriscaldamento climatico. Ma lui risponde: “Facciamo una premessa. L’Ipcc è un forum internazionale su cui si poggiano le Nazioni Unite. Ma non bisogna confondersi: le loro risultanze non sono un dogma, la scienza segue altre strade. Bisogna cogliere innanzitutto una differenza, quella trascenari e previsioni. L’Onu si basa su scenari interni, figli di modelli già precostituiti e ipotesi non del tutto disinteressate. Analizzano la letteratura e prendono, tra i risultati scientifici, quelli che confermano le loro tesi di partenza”.
Il suo pensiero è che la scienza, oggi, non sia ancora in grado di dare indicazioni certe, perché la climatologia è una disciplina molto acerba. Le basi della fisica su cui poggia non sono ancora tali da permettere conclusioni così drammatiche come quelle che sono state date dall’Ipcc. Dubitare dei dogmi sull’apocalisse climatica non significa negare il global warming, ma riconoscere che non tutta la comunità scientifica è concorde nel teorizzarlo sembra cosa opportuna.
Anche Nicola Scafetta, docente di climatologia all’Università Federico II di Napoli e autore di “Clima Basta catastrofismi”, non fa sconti al report dall’Intergovernamental panel on climate change delle Nazione Unite. “È un rapporto di parte ed esageratamente pessimista – spiega il climatologo alla rivista InsideOver –basato su una selezione degli studi più allarmistici, ignorando tutto il resto della letteratura scientifica che dà un’interpretazione meno allarmante dei cambiamenti climatici e che enfatizza gli effetti naturali rispetto a quelli antropici. Il punto è che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati e sempre ci saranno. La terra si è riscaldata di un grado dal 1900 ad oggi. E le cause di questo riscaldamento sono due: la natura, che segue cambiamenti climatici ciclici e l’uomo. Però, la letteratura scientifica è molto chiara nell’affermare l’incertezza nel quantificare i contributi antropici. E questa incertezza non è completamente messa in risalto nel rapporto, che è di parte”.
Nel 2009, durante la Cop15 di Copenaghen, era stato deciso che, a partire dal 2020, gli stati ricchi del mondo avrebbero dovuto supportare i Paesi in via di sviluppo nel loro processo di riduzione delle emissioni e di gestione del cambiamento climatico, con un finanziamento di cento miliardi di dollari l’anno. Da allora sono passati 12 anni, e quasi 12 mesi dopo la scadenza del termine, lo scorso 25 ottobre, le Nazioni Unite hanno pubblicato il “Climate financial delivery plan”. Secondo il documento, i soldi necessari potranno essere raccolti entro il 2023.
Nello scorso mese di luglio, l’UE ha annunciato il piano “Fit for 55”, per ridurre del 55% le emissioni di Co2 entro il 2030, con l’obiettivo finale di azzerarle nel 2050. Da Glasgow, ieri, i leader hanno annunciato che entro il 2030 ci sarà lo stop al disboscamento e che saranno ridotte le emissioni di metano, ben poco se si considera il peso degli assenti sulle emissioni annuali di CO2 su scala planetaria: Cina, Russia ed India che, seppur presente, non ha aderito.
Per la CO2 i controlli dicono che gli Stati Uniti sono al 22,20%, la Cina al 18,40%, la Russia al 5.60%, l’India al 4,90%, il Giappone al 4.60%, la Germania al 3,10%, il Canada al 2.30%, la Gran Bretagna al 2,20%, l’Italia all’1,70% e la Francia all’1,40%.
Ma, a fronte di questi dati oggettivi, la confusione aumenta quando si scopre che il metano ha un potenziale climalterante tra le 20 e le 30 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Per fortuna, però, a differenza della CO2 che persiste in atmosfera per centinaia di anni, il metano è ritenuto un inquinante climatico di breve durata, perché la sua vita in atmosfera è relativamente breve: si degrada in circa 10 anni.