Fermare la deforestazione entro il 2030 e ridurre di almeno il 30% le emissioni di metano entro la fine del decennio. Sono queste le prime misure annunciate alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26), iniziata domenica a Glasgow alla presenza dei principali leaders mondiali.
La giornata di martedì è stata dedicata in particolare alla tutela della biodiversità e alla protezione delle foreste, principale alleato naturale per contrastare il riscaldamento globale. Secondo le statistiche dell’ONU, nel lustro 2015-20 sono andati complessivamente distrutti circa 50 milioni di ettari di foresta. Le cause del processo sono ben note, dato che molte zone “verdi” vengono convertite in campi di allevamento di bestiame, coltivazioni di soia o piantagioni di olio di palma. Il fenomeno assume una dimensione particolarmente drammatica in alcune aree geografiche quali l’Amazzonia e il bacino del fiume Congo, due delle oasi verdi più estese e fragili al mondo. Proprio in un’ottica di contrasto alla deforestazione illegale, in apertura della COP26 più di 100 Paesi si sono impegnati a investire 12 miliardi di dollari per proteggere la selva globale. Tra gli esecutivi firmatari figurano non solo gli Stati UE, gli Stati Uniti e la Cina, ma soprattutto il Congo di Felix Tshisekedi e il Brasile di Jair Bolsonaro – quest’ultimo aspramente criticato per la sue posizioni controverse sullo sfruttamento del suolo amazzonico. L’intesa coinvolge inoltre il settore privato, con diverse multinazionali della finanza pronte a versare altri 7 miliardi per il ripristino delle foreste. Di questi, circa 1,7 miliardi saranno destinati alle popolazioni indigene.
Il pacchetto di misure è stato denominato Global Forest Pledge (“impegno globale per le foreste”). La presidente della Commissione UE, Ursula Von Der Leyen, ha svelato che Bruxelles sarà tra i principali contributori del fondo, con 1,16 miliardi di dollari – di cui 290 milioni indirizzati al solo bacino del Congo, nel cuore dell’Africa. Il capo del Governo UE ha contestualmente annunciato che “ci sarà presto una proposta di regolamento per affrontare la deforestazione globale”, che riguarderà la provenienza delle materie prime e dei prodotti immessi nei mercati europeo e globale.
Net zero by 2050 is also an innovation goal.
Together with the private sector, let's invest to scale up and deploy the technologies that are already on the horizon, like renewable hydrogen.
The #EUGreenDeal puts Europe at the forefront of the climate innovation race. pic.twitter.com/9RIvZHy8pK
— Ursula von der Leyen (@vonderleyen) November 2, 2021
Meno unanimità ha invece riscosso l’ambizioso piano del presidente statunitense Joe Biden di limitare le emissioni di metano del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli attuali. L’idrocarburo, ampiamente usato per la produzione di elettricità, è tra i gas serra più nocivi per la salute del pianeta, in quanto capace di riscaldare l’atmosfera a una velocità 80 volte superiore a quella della CO2. In sintonia con l’UE, la Casa Bianca ha guadagnato l’appoggio di 90 Stati che rappresentano due terzi dell’economia mondiale. A fare notizia è però il rimanente terzo, ossia Cina, Russia e India – che hanno deciso di rimanere fuori dal Global Methane Pledge. L’assenza ha un suo peso specifico, dal momento che Pechino è il principale emettitore di metano al mondo, mentre la Russia è il primo esportatore globale di gas naturale (di cui il metano è il principale ingrediente). Peraltro, come già successo al G-20 di Roma, le due assenze più clamorose al vertice scozzese sono state proprio quelle dei capi di Stato russo, Vladimir Putin, e cinese, Xi Jinping.
Annunci a parte, l’inizio della COP26 ha fatto emergere anche la fatale divergenza tra il predicare e il razzolare. Proprio mentre a Glasgow il Segretario Generale ONU, António Guterres, tuonava senza fronzoli (“Ci stiamo scavando la fossa”) e il premier britannico Boris Johnson (padrone di casa) bissava paragonando la situazione climatica attuale a una bomba ad orologeria come nei film di 007, anche la cruda realtà prendeva posto alla conferenza: il Governo cinese ha annunciato di aver aumentato il ritmo di produzione giornaliera di carbone, portandolo a oltre un milione di tonnellate. La misura ha una sua giustificazione concreta: scongiurare che si verifichino nuovamente prolungate interruzioni di corrente in alcune province della Repubblica popolare, alla base di un blocco della produzione che ha impensierito non solo Pechino ma anche i suoi partners (che temono un rallentamento del commercio globale). La Cina ha comunque ribadito il suo proposito di raggiungere la neutralità climatica entro il 2060.
Sempre in giornata, l’India di Narendra Modi ha a sua volta annunciato che si impegnerà a raggiungere le zero emissioni nette entro il 2070 – ossia dieci anni dopo la Cina e venti dopo gli Stati Uniti e l’UE. Nuova Delhi è il quarto inquinatore al mondo (dopo Cina, USA e USE), ma se letto in relazione all’ingente popolazione il dato rivela come il Paese asiatico sia in realtà relativamente virtuoso, con una media di sole 1,9 tonnellate di CO2 pro capite – assai più bassa rispetto a Stati Uniti (15,5 tonnellate) o Russia (12,5 tonnellate).
Le prime due giornate della COP26 sembrano aver trovato nell’amministrazione Biden una sorta di capo-gruppo. Pur in un’atmosfera di multilateralismo, la Casa Bianca non ha lesinato frecciatine a Pechino – criticata per i suoi “dati anomali” e gli impegni modesti – e a Mosca – rimproverata per l’assenza al vertice e per il suo ruolo nella crisi energetica. C’è stato poi spazio anche per un’autocritica: Biden si è scusato con la comunità internazionale per il disinteresse dell’amministrazione Trump rispetto ai cambiamenti climatici. Oltre al fronte estero, Biden deve però fare i conti anche con la situazione interna, dato che la riduzione delle emissioni di metano potrebbe complicare i piani dei frackers e degli impianti di shale gas che hanno fatto degli Stati Uniti il principale produttore di gas al mondo. La misura è politicamente delicata e rischia, nella peggiore delle ipotesi, di incontrare il boicottaggio di governatori e parte del Congresso.
I primi passi della COP26 sulla deforestazione e sul metano non hanno peraltro convinto alcuni ambientalisti e delegati delle nazioni più a rischio, che dubitano dell’efficacia delle misure nel contenere l’aumento delle temperature globali a 1,5 °C. Tra i più scoraggiati il presidente panamense Laurentino Cortizo: “Abbiamo bisogno di azioni, di annunci ne abbiamo già ascoltati in passato”.