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July 23, 2021
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Se perdessimo la prossima guerra? L’Australia è pronta alla resistenza, l’UE no

Si calcola che gli USA non sono più in grado di essere un deterrente sufficiente per la Cina e allora gli australiani si preparano a combattere come i talebani

James HansenbyJames Hansen
Se perdessimo la prossima guerra? L’Australia è pronta alla resistenza, l’UE no

Un soldato australiano (Foto Pixabay)

Time: 2 mins read

La domanda è retorica, perché il proto-governo continentale —l’Ue—pare convinto che la guerra come istituzione sia obsoleta, che non ce ne possano più essere se non in maniera marginale e in qualche misero e sperduto angolo del mondo. È una posizione resa esplicita dalla recente decisione della Corte di Giustizia Europea di estendere le direttive Ue in materia di orari di lavoro anche ai militari in servizio effettivo. L’opinione—vincolante—della Corte è che i soldati non siano “soldati”, bensì dei semplici lavoratori soggetti a orari di servizio prestabiliti, rigide limitazioni sul lavoro notturno, compiti predefiniti con variazioni esplicitamente accettate dai singoli, 11 ore di riposo giornaliero e così via. Una limitata deroga è ammessa nei casi di combattimento attivo, operazioni speciali oppure “costrizioni insormontabili”, ma non per l’addestramento.

Il verdetto—che si applica a tutti gli Stati Ue —ha incontrato molte obiezioni in Francia, ma è passato perlopiù inosservato in Italia. Del resto, se lo scopo delle forze armate è essenzialmente quello di fungere da “poliziotti della pace” occasionali nelle piccole guerre altrui e di prestare assistenza in caso di disastri naturali, allora va benissimo così. Ci sono però paesi evoluti, moderni e civili che ritengono invece di dover affrontare invasioni e combattimenti estesi nel prossimo futuro.

È il caso dell’Australia, che si aspetta di trovarsi in guerra con la Cina in tempi tutt’altro che biblici. L’interessante variante è che gli Aussie conterebbero anche di perdere, e il dibattito interno verte in sostanza su come perdere meglio, il tema della policy analysis che citiamo in sintesi qui di seguito:

“Con una popolazione piccola (25 mln) e un territorio esteso (7.692.000 km2), cosa succede se l’Australia perde la prossima guerra? Le armi cibernetiche e spaziali sono una sfida per le classiche difese del territorio. È possibile che, di fronte alla robotica e ai sistemi autonomi, il migliore utilizzo delle nostre truppe da terra non sia quello di combattere proattivamente in prima linea, ma piuttosto di rendere i centri abitati australiani ingovernabili.

“Gli Stati Uniti hanno ritirato le truppe dall’Afghanistan dopo vent’anni. La coalizione non è stata in grado di sconfiggere i Talebani, e nemmeno di assicurare che non prenderanno il controllo ora che gli americani se ne sono andati. C’è il caso di Hezbollah nel Libano meridionale, delle insurrezioni Sunnita e Sciita in Iraq, dei ribelli Houthi nello Yemen—sono solo alcuni esempi moderni di campagne militari di successo asimmetriche, come prima ancora dei Viet Cong nel Vietnam”.

“La lezione è che la tecnologia potrebbe anche vincere la guerra convenzionale, ma non decidere invece chi vince una volta che i combattimenti convenzionali sono conclusi. Il Dipartimento della Difesa Usa conferma che gli Stati Uniti sono nella più debole condizione militare dalla fine della Guerra Fredda. Se non possiamo più contare sulla capacità di deterrenza degli Usa, l’Australia deve avere un piano per quando la guerra va male”.

Ora, un’Italia ipoteticamente invasa e sconfitta molto difficilmente potrebbe darsi alla macchia. Forse è bene però che si sappia che esistono paesi “ragionevoli” che invece la guerra la vedono comunque arrivare—e senza che il conflitto debba concludersi necessariamente bene…

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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