Un breve riepilogo: In Burkina Faso, migliaia di cittadini hanno abbandonato le loro case dopo il massacro avvenuto nella notte fra venerdì e sabato scorso nel villaggio di Solhan, nella provincia di Yagha, in cui sono state uccise almeno 160 persone, tra cui donne e bambini.
L’attacco non è stato ancora rivendicato, ma la matrice è facilmente ipotizzabile. La zona è infatti contesa da tre Paesi (Burkina Faso, Mali e Niger) e, come molte frontiere, è spesso meta prescelta per azioni contro civili e militari portati avanti da gruppi jihadisti vicini ad Al-Qaeda.
Una violenza inaudita, con un numero di morti impressionante. Eppure, la notizia ha faticato a irrompere nel circolo dell’informazione. Qualche articolo, sì, ma nulla di eccezionale.
Esistono studi, molto vicini alla sociologia, che si occupano di individuare la “notiziabilità delle notizie”. Ogni giorno, nel mondo, accadono migliaia di fatti: quali di questi meritano di essere raccontati? Di solito, quelli che rompono gli schemi.
Una delle citazioni più famose quando si parla di giornalismo, attribuita a un redattore della cronaca cittadina del New York Sun, è “Quando un cane morde un uomo non fa notizia, perché capita spesso. Ma se un uomo morde un cane, quella sì che è una notizia”.
Ci sono poi quelli che Mauro Wolf individua come “criteri sostantivi”, ovvero la tipologia e il numero di soggetti coinvolti, la prossimità dell’evento, i possibili sviluppi e la capacità di attivare interesse sul web.
Bene, questo è il motivo per il quale, il Burkina Faso, rimane sempre nascosto in un cono d’ombra. Se lo stesso evento fosse successo in Italia, Francia, Inghilterra, Germania o Stati Uniti, cosa sarebbe accaduto? La risposta è semplice e quasi scontata: del Burkina Faso non parliamo, perché del Burkina Faso non ci interessa.
È un Paese troppo lontano (e geograficamente confuso: con chi confina?), povero e ininfluente per poter essere materia dei nostri discorsi quotidiani. Nemmeno i Capi di Stato, loro sì solitamente obbligati a osservare con attenzione lo scenario internazionale, hanno dato troppo peso alla vicenda.
Ricchi di parole di cordoglio quando la violenza colpisce gli amici occidentali, nel caso del Burkina Faso regna invece un silenzio di tomba. Chi si aspettava discorsi ufficiali e segni di solidarietà nei confronti di un popolo martoriato dal terrorismo, è rimasto a bocca asciutta.
A intervenire è stato l’Onu attraverso Babar Baloch, il portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che ha sottolineato come le vittime siano state giustiziate nell’attacco e che, temendo di essere uccise, migliaia di persone abbiano abbandonato i villaggi di Sebba e Sampelga. Tra loro si contano oltre 2.000 bambini e 500 donne, che hanno urgente bisogno di acqua, servizi igienico-sanitari e cure mediche.
L’Unchr, grazie alla collaborazione delle autorità locali, ha consegnato 400 tonnellate di cibo e migliaia di oggetti utili al primo soccorso, oltre all’assistenza medica e al supporto psicosociale.
Tutto mentre il mondo, o almeno quello che siamo abituati a considerare tale, getta il suo sguardo su altri problemi: riapertura delle frontiere per tornare a viaggiare, vaccini e miliardi in arrivo dal Recovery Plan.
Il dramma in Burkina Faso è già storia vecchia. Storia che, probabilmente, non vogliamo nemmeno sentire.