L’Afghanistan è lontano. Liquidato Osama bin Laden; al Qaeda poco più di un’etichetta; sbiadito il ricordo della tragedia delle Twin Towers. Penso che se si facesse un sondaggio in pochi saprebbero dare una risposta alla domanda: chi era Mohamed Atta (il terrorista egiziano a capo del commando suicida che dirotta il volo American Airlines 11, portandolo poi a schiantarsi contro la Torre Nord del World Trade Center di New York). Così vanno le cose.
Sono ormai trascorsi vent’anni da quel 7 ottobre 2001, quando gli Stati Uniti danno il via alla guerra in Afghanistan. Alla Casa Bianca presidente è George W. Bush. Truppe USA e della NATO conquistano Kabul, la capitale, è l’operazione “Enduring Freedom”. Obiettivo: guerra al terrorismo, distruggere al-Qaeda, catturare o uccidere bin Laden, impedire che possa operare all’interno dell’Afghanistan complice il compiacente regime talebano. A dieci anni dall’invasione, il 2 maggio 2011, un commando effettua un’incursione ad Abbottabad, in Pakistan, sorprende e uccide bin Laden. Alla Casa Bianca c’è Barack Obama. Nel 2015 “Enduring Freedom” viene sostituita da “Resolute Support Mission”: aiuto al governo afgano sempre più traballante, e – soprattutto – progressivo ritiro delle truppe americane.
Guerra finita, obiettivo raggiunto, terroristi annichiliti, pace nella regione? Tutt’altro. C’è una flebile promessa dei Talebani di una tregua, per consentire agli eserciti stranieri tornare a casa salvando un minimo di faccia. E’ comunque un fatto che i terroristi e i loro complici giorno dopo giorno rafforzano il loro controllo sui territori.
La politica di ritiro di Donald Trump prima, Joe Biden ora, non comporta, come contropartita un Afghanistan pacificato e liberato dall’oppressione dei Talebani. Quello sventurato paese continua a essere preda del fondamentalismo islamico. La pace promessa e garantita è quella della morte. Non è dato sapere quanti civili afgani hanno lasciato, lasciano e lasceranno il paese per trovare rifugio nei paesi confinanti o altrove, in Occidente.
Vent’anni di guerra e di occupazione sono costati molto, agli Stati Uniti, in termini di morti, feriti, ed economici (incalcolabile il prezzo pagato dai civili afgani). E’ evidente che una guerra non si può condurre in eterno. Arriva un momento in cui bisogna tirare una riga e fare la somma dei più e dei meno. E’ comunque un fatto che il ritiro o come lo si voglia chiamare, ha comunque il sapore della sconfitta, di un fallimento. Come accaduto in Vietnam o in Somalia, la Super potenza USA ha fallito.
Nel caso dell’Afghanistan, l’umiliazione USA viene dopo quella, molti anni fa, inferta all’allora Unione Sovietica. Più indietro nel tempo, un secolo prima, un’allora Super potenza, l’impero britannico, non aveva avuto miglior fortuna, nelle gole e tra le montagne afgane. Tutti i Golia che si sono cimentati in Afghanistan sono stati sconfitti dai Davide di Kabul e Kandahar. In quel caso, fu ancora più umiliante e doloroso: da Londra viene mandato con arrogante prosopopea un corpo di spedizione forte di oltre ventimila soldati. Uno solo di loro fa ritorno.
Quando anche l’ultimo militare americano avrà lasciato Kabul, è probabile che si rivedranno scene analoghe a quelle che si sono viste nell’allora Saigon o a Mogadiscio. Con esiti forse ancora più tragici.