Sono trascorsi ormai 4 mesi dal giorno i cui i militari del Myanmar hanno sospeso la democrazia, sciolto il Parlamento, incarcerato i leader della Lega per la Democrazia e scatenato una sanguinosa repressione contro gli oppositori facendo oltre 800 morti e riempiendo le prigioni di migliaia di oppositori. In questi 4 mesi i militari, conosciuti come il Tatmadaw, non sono però riusciti a fermare la protesta che è arrivata fino ai saloni dove si svolgeva Miss Mondo: Han Lay, studentessa di psicologia in gara per Myanmar, ha detto semplicemente “Aiutate il mio Paese”. Parole che significano per lei l’esilio forzato.
L’esercito ha rimesso le catene al Paese quando ha visto che dopo le ultime elezioni il partito di Aung San Suu Kyi, la leader della Lega per la Democrazia passata dall’elogio incondizionato internazionale alle critiche sulla sua debolezza nei confronti dei militari, aveva ottenuto la maggioranza dei seggi e al tempo stesso nessuno dei quasi 30 partiti ispirati dalle forze armate aveva guadagnato un solo seggio. Tatmadaw sarebbe stato comunque presente in parlamento perché uno degli accordi del 2008, seguiti alle proteste culminate nella Rivoluzione Zafferano, che avviarono una lenta transizione verso la democrazia, prevedeva che ai militari fosse comunque riservato il 25 per cento dei seggi, i ministri di Difesa, Interni e Affari di Confine e il veto a emendare la costituzione senza il loro placet.

Tredici anni dopo quegli accordi e con un desiderio di democrazia crescente, ha portato alla cancellazione del risultato elettorale del 2020, all’arresto dei leader a cominciare da Aung San Suu Kyi e ad un bagno di sangue. Il confronto è stato diretto e violentissimo: da una parte decine di migliaia di persone in piazza a reclamare libertà e democrazia, dall’altra i militari (contano su 500 mila effettivi a cui si aggiungono gli 80 mila poliziotti) che hanno ricevuto l’ordine di sparare su chi protestava.
Così, da subito, si è creata una situazione terribile. Muro contro muro. Tatmadaw ha inaugurato una stagione del terrore e al fuoco sulla folla ha fatto seguire azioni di vero e proprio terrorismo con i soldati mandati nelle zone più turbolente delle città a sparare e far esplodere granate per ore ed ore come monito alla popolazione a non uscire di casa. Ovviamente, sono stati chiusi tutti gli spazi di comunicazione su internet e sui social media come Twitter, Facebook. Il Movimento per la disobbedienza civile, nato sulle ceneri del parlamento sciolto con la forza, ha dichiarato la mobilitazione totale, ha chiamato il paese alla totale astensione da ogni attività nelle scuole, negli uffici, nelle banche, nelle fabbriche e ha indicato come obiettivo numero uno l’abolizione della Costituzione che garantisce un potere di veto ai militari.

Una delle scelte più coraggiose del Movimento per la disobbedienza civile è stata quella di provare a coinvolgere le diverse minoranze etniche. In un paese di oltre 55 milioni di abitanti si contano 135 diverse etnie e i Bamar, la più importante per status e poteree al tempo stesso il cuore della protesta, non sono visti di buon occhio dalle altre, alcune delle quali in aperto conflitto con il potere centrale da sempre e organizzate anche militarmente (spesso alla base di questa scelta c’è l’obiettivo di controllare una serie di traffici illeciti che avvengono in particolare nelle zone di confine). Il Movimento per la disobbedienza ha lanciato l’idea di una grande alleanza che abbia al centro l’obiettivo, una volta sconfitti i militari, di creare uno stato federale in cui tutte le etnie abbia eguali diritti e far da collante sia la creazione di un nuovo esercito e una nuova polizia in cui confluiscano le organizzazioni armate dei diversi gruppi etnici.
Non è ancora chiaro quale atteggiamento prevarrà nell’immediato futuro: sembra che alcune etnie siano favorevoli a questa proposta e hanno intensificato sui territori che controllano azioni militari a cui è subito seguita la risposta armata di Tamadaw. Altri invece, paiono aver scelto la strada di sospendere ogni attività contro i militari nella speranza di trarre vantaggi sulle aree che controllano e accordi bilaterali. Di certo gli analisti delle vicende di Myanmar ritengono che se si saldasse l’alleanza tra tutte le etnie, i militari potrebbero vedere presto mutare i rapporti di forza a loro sfavore.

Al bilancio di morti, feriti, arrestati e torturati si è aggiunta la paralisi di fatto del paese. Secondo i primi dati diffusi, c’è stato un calo del 75 per cento di ogni attività economica e il 13 per cento delle attività è fermo dal 1° febbraio. Una situazione che danneggia sì il sistema paese e decine di migliaia di famiglie, ma colpisce anche i militari che hanno il diretto controllo di importanti attività economiche (carbone, gas, rame, estrazione di pietre preziose, banche, grande distribuzione) attraverso due grandi conglomerati: la Myanmar Economic Holding Ltd (Mehl) e la Myanmar Economic Corporation (Mec), i cui proventi in miliardi di dollari finiscono direttamente alla elìte militare (al vertice c’è il numero uno delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing) non rispondono a nessuna regola a cominciare dalla esenzione totale dell’obbligo di pagare l’Iva e le tasse sui profitti.
La tragedia del Myanmar si sta compiendo nel silenzio totale dei paesi che più hanno influenza e interessi (Cina, Russia e Tailandia) e soprattutto dell’Asean, l’organizzazione ed alleanza dei paesi del sud est asiatico, che si è limitata a deboli inviti a trovare una soluzione pacifica. La diplomazia non è riuscita ad aprire neanche il più piccolo varco per fermare la repressione e portare intorno a un tavolo i contendenti. Anche la scelta di alcuni paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, di mettere uomini in divisa e loro organizzazioni al bando non sembra aver portato a risultati degni di nota. In più, tutti i paesi confinanti con Myanmar hanno voltato la testa dall’altra parte nel timore che la repressione produca un fenomeno migratorio per sfuggire alla violenza e all’arbitrio di Tatmadaw, come avvenne per il popolo dei Roynga a seguito della repressione politico religiosa nei confronti di questa etnia.