E adesso? Si risponde colpo su colpo? Si cerca di discutere tutto punto per punto per migliorare la situazione? O si china il capo in una resa senza condizioni?
Questa domanda, con le sue varie declinazioni, è la prima delle questioni sul tavolo a Bruxelles e in ognuna delle 27 capitali dei Paesi che fanno parte della Unione Europea dopo che Donald Trump, il presidente MAGA (Make America Great Again), ha assalito l’intero mondo (esclusa Russia, Corea del Nord, Bielorussia e Cuba) con l’arma dei dazi. Trump ha sotterrato con un colpo la globalizzazione riportando il mondo in un’era lontana almeno 100 anni quando le tariffe erano lo strumento principe per vincere la guerra dello sviluppo.
Ursula von der Leyen, la presidente della commissione UE, ha deciso che una risposta ci sarà. Quale però non lo ha specificato. Non vuole farsi prendere dalla fretta di far vedere che il continente esiste, forse non vuole commettere errori aggravando una situazione che sullo sfondo fa già vedere minore crescita economica, maggiore deficit, diminuzione dell’occupazione, inflazione. Tragedie già da oggi precedute dal terremoto finanziario che stanno vivendo i mercati azionari del Vecchio Continente.
Von der Leyen vuole anche essere sicura di che cosa faranno i singoli Paesi e li vuole tutti intorno a un tavolo. Donald Trump continua a riempire di insulti gli europei, ma non può non sapere che se la UE si muoverà compatta la partita per la Casa Bianca non sarà semplicissima: potrà anche fantasticare che le aziende europee sposteranno i loro centri di produzione negli Stati Uniti, ma il tempo gioca a suo sfavore. Per aprire una fabbrica di là dall’oceano non ci vogliono due settimane e chi lo volesse fare si porrà, prima tra le domande sulla convenienza, quella sui tempi: il rischio è di vedere l’inaugurazione del nuovo centro produttivo quando il mandato di Trump sta per concludersi o lui è già tornata a casa. Conviene?
Ma una risposta bisogna cominciare a darla. E non è detto che i capi di stato e di governo dei 27 Paesi UE abbiano la stessa idea sulla risposta da dare.

Basta guardare a Roma, dove il presidente del consiglio Giorgia Meloni sta vivendo forse i suoi peggiori giorni da quando è al governo: negli ultimi mesi ha giocato la carta di costruirsi il ruolo di intermediario tra la Casa Bianca e Bruxelles. Ma non le è andata bene: primo, perché gli americani non hanno bisogno di intermediari, anzi tendono a considerarli dei fastidiosi rompiscatole, secondo perché un tipino tosto come la von der Leyen non accetta di avere un mediatore tra lei e il presidente MAGA.
Meloni, che continua a inseguire un suo viaggio personale a Washington per essere ricevuta nello Studio Ovale, con i suoi uomini di fiducia che rilanciano questo ballon d’essai giorno dopo giorno, ha anche un problema interno al governo. È formato da tre partiti e ciascuno canta uno spartito diverso: Fratelli d’Italia intona il non è «una catastrofe» e chiede di cambiare subito le regole europee (e chissà che cosa c’entrano con la guerra dei dazi), Forza Italia suona lo spartito della UE che tratta direttamente con gli USA a nome di tutti e 27 i membri, la Lega fischietta il motivetto andiamo da soli a Washington e facciamoci i fatti nostri.
In tutto questo il governo fa finta (o ignora per non aver fatto bene i conti) che l’Italia, se non fosse membro UE avrebbe dazi al 31 per cento e non al 20. Miracolo della stupida formula matematica utilizzata dai consiglieri di Trump per calcolare le tariffe da applicare a ogni singolo paese.
Non sarà facile uscire da questa situazione e ci vorranno anni per tornare a una normalità che va sotto il nome di global trade, che ha i suoi difetti ma funziona sicuramente meglio della chiusura delle frontiere e della politica dei dazi. Intanto, avremo bruciato ricchezza, posti di lavoro, quote di welfare e relazioni diplomatiche.
Molto probabilmente ha ragione il giornalista inglese del Financial Times che vive e lavora a Washington da tantissimo tempo. Ha anticipato questo futuro scenario come risposta ai dazi di Trump in un articolo dal titolo “La bella guerra dei predatori d’America”: «Le nazioni cercheranno di concludere affari seri tra di loro bypassando gli Stati Uniti. In questo senso, il commercio internazionale di Trump si sconfigge da solo. La fiducia che cade porta a meno affari».