È una questione di cui si parla poco, all’interno del complesso e ampio spettro di contingenze collaterali legate a situazioni di conflitto armato, ma i numeri delle persone di cui si perdono le tracce in contesti di guerra sono indubbiamente allarmanti. “Allarmante”, in effetti, è stato il termine che ha usato in proposito Reena Ghelani dell’OCHA, l’ufficio di coordinamento delle attività umanitarie dell’ONU, in occasione del suo intervento davanti al Consiglio di Sicurezza.
E proprio i membri del Consiglio hanno approvato all’unanimità una storica risoluzione sull’argomento, con l’obiettivo di incoraggiare i Paesi membri a portare a termine i propri obblighi in tema, ad agire sulla prevenzione e a muoversi con anticipo, in modo che le famiglie rimaste separate nel conflitto armato possano riunirsi, o perlomeno possano ricevere risposte sulla sorte dei propri cari.
Non esistono dati comprensivi sul numero di persone scomparse nei conflitti, ma, secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, ci sarebbero stati 10mila casi in Siria, e 13mila richieste d’aiuto per lo stesso motivo nella sola Nigeria.
Molteplici le cause del fenomeno. Le persone possono essere catturate delle fazioni in lotta, e venire sequestrate in luoghi nascosti, oppure rimanere vittime di esecuzioni extragiudiziarie, ed essere sepolte in posti difficilmente riconoscibili. O ancora, i conflitti finiscono per separare irrimediabilmente interi nuclei familiari.
Tanti, anche, sono gli aspetti da considerare. Certamente, da sottolineare lo stato di disperazione dei familiari lasciati nell’incertezza, ma anche l’impatto economico che la scomparsa di un membro della famiglia può avere sull’intero nucleo, soprattutto nel caso in cui la persona scomparsa fosse quella che sostentava il resto della famiglia. Non solo: come ha puntualizzato Ghelani durante il Consiglio di Sicurezza, i parenti della vittima devono spesso affrontare sfide legali, culturali e burocratiche che rendono molto difficile risposarsi o rivendicare la propria eredità o benefit economici.
In tale contesto, storico – come si è detto – il documento approvato dal Consiglio di Sicurezza. Si tratta infatti della prima risoluzione mai approvata sull’argomento, che incoraggia gli Stati ad abbandonare l’approccio post-conflitto, per agire sulla questione sin dall’inizio delle ostilità. La risoluzione, infatti, elenca una lunga serie di misure preventive, che includono la registrazione dei detenuti, il rafforzamento delle modalità di identificazione, e l’introduzione di uffici nazionali preposti allo scambio di informazioni su detenuti e sostenitori di partiti avversi al Governo. Un’enfasi particolare viene posta sui bambini scomparsi: la risoluzione, infatti, riafferma il sostegno al Comitato Internazionale della Croce Rossa sull’argomento e incoraggia gli Stati membri a cooperare con l’organizzazione e la sua agenzia investigativa, nel rispetto della legge umanitaria internazionale.
“Grazie al Kuwait per la sua guida nel portare avanti questo argomento di dibattito quest’oggi”, ha dichiarato il capo della Croce Rossa, collegato da Ginevra, Peter Maurer. “Il Comitato Internazionale della Croce Rossa accoglie con favore l’adozione di questa risoluzione, la prima del Consiglio di Sicurezza interamente dedicata alla questione delle persone scomparse nei conflitti, ed elogia l’impegno del Consiglio sul tema”, ha sottolineato.
E non è un caso che sia stato proprio il Kuwait – che questo mese presiede il Consiglio di Sicurezza – a portare l’argomento sull’importante tavolo del Palazzo di Vetro. Perché durante l’occupazione irachena degli anni Novanta, l’emirato affacciato sul Golfo Persico denunciò la sparizione di più di 600 propri cittadini, mentre Baghdad circa 1000. Secondo i dati della Commissione Tripartita, formata da rappresentanti dell’Iraq, del Kuwait e della coalizione e presieduta dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, in quel conflitto si persero certamente le tracce di più di 300 persone, di cui, accertati, 217 kuwaitiani, 94 iracheni e 12 sauditi. Un passato doloroso che deve aver incoraggiato la presidenza di giugno del Consiglio di Sicurezza a promuovere uno storico intervento della comunità internazionale su una materia rimasta per troppo tempo pressoché ignorata.