A fine maggio, l’inviato speciale del Segretario Generale in Libia, Ghassan Salame, era intervenuto in Consiglio di Sicurezza all’ONU per aggiornare la comunità internazionale sull’andamento del nuovo conflitto civile. In quell’occasione, il diplomatico libanese aveva “predetto” che l’escalation di violenza nei dintorni di Tripoli avrebbe potuto portare a “una lunga e sanguinosa guerra nelle sponde sud del Mediterraneo”, a meno di un’azione ferma del Consiglio, immobilizzato dalle divisioni interne sulla questione. Oggi, i suoi membri hanno approvato, con 15 voti a favore, una bozza di risoluzione della Gran Bretagna che rinnova, per altri 12 mesi, le misure previste dalla risoluzione 2420 (2018) sull’implementazione dell’embargo sulle armi. In particolare, il provvedimento conferma l’autorizzazione a effettuare ispezioni delle navi al largo della Libia, da lì provenienti o lì dirette, per verificare che non siano in atto violazioni dell’embargo.
Violazioni – aveva denunciato Salame – già ampiamente documentate da parte dei principali agitatori esterni del conflitto, che hanno fornito armi chi all’una, chi all’altra parte. “Senza un solido meccanismo di applicazione, l’embargo in Libia diventerà uno scherzo cinico”, aveva avvertito l’inviato ONU in Libia. Tra i principali accusati di continuare a rifornire di armi Haftar spiccano gli Emirati Arabi Uniti, ma anche l’Egitto continuerebbe ad assicurare supporto militare all’uomo forte della Cirenaica. Dall’altro lato, le forze di Sarraj, verso la fine di maggio, avevano dichiarato di aver ricevuto una fornitura di armi straniere, alcune settimane dopo aver annunciato il supporto militare della Turchia nel rispondere all’offensiva di Haftar. E il generale nemico di Sarraj aveva minacciato di attaccare qualsiasi nave turca che attraccasse nella Libia occidentale per rifornire di armi il Governo di Unità Nazionale.

Report of the Secretary-General on the implementation of resolution 2420 (2018) (S/2019/380)
VOTING 15-0-0
“Sono profondamente preoccupato per le operazioni militari in corso in Libia, che, secondo quanto riportato, vengono alimentate dal trasferimento di armi nel Paese, anche via mare”, ha scritto il Segretario Generale nel suo ultimo report in proposito. Guterres ha anche sottolineato che “negli otto anni da quando il Consiglio di Sicurezza ha imposto l’embargo sulle armi in relazione alla Libia, la sua implementazione continua ad andare incontro a sfide”. E nel suo precedente rapporto, aveva ricordato che le armi provenienti dalla Libia avevano contribuito all’espansione dell’influenza del terrorismo nella regione.
Secondo l’ambasciatore tedesco Schulz, che presiede la Commissione sulle Sanzioni per la Libia, non solo “una fornitura di armi apparentemente illimitata alimenta l’erronea fiducia in una soluzione militare al conflitto” – diminuendo parallelamente la praticabilità di una soluzione politica –, ma diminuisce anche “la credibilità dell’ONU e del Consiglio di Sicurezza”.
Un Consiglio che resta sostanzialmente diviso tra gli sponsor di Haftar e i sostenitori di Sarraj, con alcuni elementi di ambiguità di cui vi abbiamo parlato in queste settimane. Non è un caso che un gruppo di politici americani abbiano chiesto all’amministrazione di Donald Trump, di cui è nota la recente “giravolta” a favore di Haftar, di chiarire la propria posizione. In una lettera inviata al segretario di Stato Mike Pompeo, otto membri della Camera dei Rappresentanti lo hanno esortato a “rigettare chiaramente” l’offensiva militare dell’uomo forte della Cirenaica.
Intanto, la situazione umanitaria nel Paese si aggrava di ora in ora. Rupert Colville, portavoce dell’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, ha denunciato nelle scorse ore le “condizioni agghiaccianti” in cui versano migranti e rifugiati detenuti nei campi nella zona di Tripoli e altrove nel Paese. In particolare, alcuni migranti che soffrivano di tubercolosi sono stati letteralmente “lasciati a morire” in un centro di detenzione a sud della capitale. Lo stesso rapporto dell’Ufficio di Bachelet testimonia anche che diverse persone intercettate e riportate indietro dalla Guardia Costiera Libica sono scomparse o sono state vendute ai trafficanti.
“La tubercolosi non deve essere una malattia mortale, ma in queste circostanze sta chiaramente uccidendo persone, e c’è il rischio che altre ancora muoiano”, ha detto Colville. “Secondo un altro report, le persone vengono mandate a morire in un luogo nei pressi della linea del fronte, perché sono cristiani e, nei dintorni di Zintan, non ci sono strutture per effettuare le sepolture”.
Non solo: l’Alto Commissariato per i Diritti Umani – che, lo ricordiamo, di recente ha duramente criticato le ultime direttive del Decreto Sicurezza di Matteo Salvini – ha espresso preoccupazione per le tante denunce di scomparsa di persone che erano state intercettate dalla Guardia Costiera Libica in mare, e per i tanti episodi in cui i migranti riportati in Libia sono finiti nuovamente nella rete dei trafficanti di uomini. Circostanza che smonterebbe la narrazione secondo cui l’accordo negoziato dall’Italia con la Libia per appaltare alla Guardia Costiera locale il salvataggio dei migranti in mare sarebbe un provvedimento di contrasto al traffico di esseri umani. “La Guardia Costiera Libica e il Dipartimento per il Contrasto dell’Immigrazione Illegale”, ha ricordato Colville, “devono ritenersi responsabili per ogni persona detenuta, e devono assicurare che i loro diritti umani siano rispettati”.
Secondo l’ONU, dal 30 aprile scorso ben 2300 persone sono state intercettate nel Mediterraneo e riportate nei campi di detenzione libici. Di questi, più di 200 sono stati consegnati al campo di Al-Khoms lo scorso 23 maggio, ma il personale del centro dichiara che solo 30 migranti sono attualmente presenti.
Un quadro che aiuterà a comprendere la sentenza di fine maggio del Tribunale di Trapani sul caso Vos Thalassa. Lo scorso luglio, il rimorchiatore italiano aveva recuperato alcune decine di migranti, e due di loro, per evitare di finire nuovamente in Libia, si erano ribellati, costringendo il comandante a fare rotta verso l’Italia. La sentenza del Tribunale, nelle scorse ore, ha scagionato i due “dirottatori” (all’epoca definiti dal ministro Toninelli “facinorosi”) invocando la “legittima difesa”. Il documento spiega anche perché equipaggi e navi italiane, riconsegnando migranti alla Guardia Costiera Libica, violerebbero, tra le altre cose, l’articolo 3 della CEDU e l’articolo 52 della Carta di Nizza, che difendono il diritto dell’essere umano a non subire torture e trattamenti inumani e degradanti.
Sempre in questo contesto, si può interpretare la recente denuncia contro l’UE depositata al tribunale dell’Aja per “crimini contro l’umanità”, effettuata da Juan Branco, che ha lavorato in passato alla Corte Penale Internazionale e al ministero degli Esteri francese, e da Omer Shatz, avvocato israeliano che insegna all’Università Sciences Po di Parigi, alla testa di un gruppo internazionale di avvocati. In tale mastodontica denuncia, si citano le responsabilità europee nella gestione dell’immigrazione, ma anche quelle dei governanti italiani che hanno stipulato accordi con la Libia, nonostante fossero a conoscenza dello stato di violazione di diritti umani a cui i migranti sarebbero andati incontro. L’esposto fa nomi e cognomi: citati, gli ex primi ministri italiani Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (artefice dell’accordo con la Libia), e l’attuale titolare del Viminale e vicepremier Matteo Salvini.
La tesi, dunque, è chiara: “Esternalizzando le pratiche di respingimento dei migranti in fuga dalla Libia alla Guardia costiera libica, pur conoscendo le conseguenze letali di queste deportazioni diffuse e sistematiche (40 mila respingimenti in 3 anni), gli agenti italiani e dell’UE si sono resi complici degli atroci crimini commessi contro l’umanità nei campi di detenzione in Libia”. Non solo: “Attraverso un complesso mix di atti legislativi, decisioni amministrative e formali accordi, l’UE e i suoi Stati membri hanno fornito alla guardia costiera libica sostegno materiale e strategico, incluso ma non limitato a navi, addestramento e capacità di comando e controllo”. Il riferimento può essere all’ufficializzazione della zona SAR libica la scorsa estate, cioè l’area di ricerca e soccorso in cui le operazioni di salvataggio sono di responsabilità di Tripoli. Qualche mese più tardi, però, l’escalation nel Paese ha dimostrato che la Libia non può considerarsi un porto sicuro di sbarco, né, quindi, un luogo dove riportare i migranti salvati in mare. E le recenti denunce dell’ONU non fanno che confermarlo.