L’ambasciatore israeliano Danny Danon che accusa Hamas di violenza e terrore, incolpandola del massacro. L’osservatore ONU dello Stato di Palestina Riyad Mansour che chiede quante altre vite palestinesi dovranno sparire, prima che si metta la parola fine al conflitto. Nel mezzo, una soluzione a due Stati che continua a essere sostenuta da grossa parte della comunità internazionale, senza che però diventi mai realtà. E un’ambasciatrice, quella statunitense all’ONU Nikki Haley, che difende strenuamente Israele, da tutto e da tutti. Martedì 15 maggio, alla riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza ONU dopo gli scontri di lunedì, è andata in scena la replica di un film già visto: quello del Consiglio di Sicurezza del 24 luglio 2017, che al tempo fu convocato d’urgenza a seguito dell’ennesima escalation di violenza a Gerusalemme.

Diversamente da allora, il numero delle vittime degli scontri, questa volta, è più alto. Tre palestinesi uccisi dalla polizia israeliana a Spianata delle Moschee, e tre coloni israeliani accoltellati da un palestinese nell’insediamento di Halamish in Cisgiordania, nel 2017. Circa 2700 feriti e 58 palestinesi uccisi, nel massacro di Gaza di lunedì 14 maggio 2018. Esattamente come allora, però, il Consiglio di Sicurezza ONU a New York ha accolto una seduta dai toni accessi, facendo emergere le stesse distanze e le stesse posizioni, senza riuscire a trovare una soluzione definitiva al conflitto. E lo ha fatto, questa volta, in una giornata particolarmente simbolica, come l’anniversario dei 70 anni della nascita dello Stato di Israele.

La seduta alle Nazioni Unite di martedì si è aperta con il minuto di silenzio indetto dal Presidente del Consiglio di Sicurezza polacco, Joanna Wronecka, in rispetto a “quanti sono morti in un conflitto che continua da troppo tempo”. Dopo il silenzio, però, il rispetto è finito nel dimenticatoio. E dopo il briefing di Nickolay Mladenov, Special Coordinator for the Middle East Peace Process, che ha evidenziato la necessità di continuare a lavorare nel solco della soluzione a due Stati, è iniziata la guerriglia delle parole tra parti troppo distanti per trovare la quadra. “Nell’ultimo mese, Israele ha dovuto difendere se stesso dalla violenza lungo il confine con Gaza” ha detto, duro, l’ambasciatore israeliano Danny Danon, accusando Hamas di volere “la morte più della pace”, condannando l’organizzazione terroristica di usare gli attivisti come “scudi umani” e denunciando: “Hamas ha commesso crimini di guerra non solo contro i civili israeliani, ma anche contro le sue stesse persone. Ogni persona risultata vittima delle recenti violenze è in realtà vittima dei crimini di guerra di Hamas”.

L’osservatore ONU dello Stato di Palestina, Riyad Mansour, ha rispedito le accuse al mittente. “Condanniamo nei termini più chiari possibili l’odioso massacro commesso da Israele nella striscia di Gaza” ha dichiarato durante il Consiglio di Sicurezza, evidenziando: “È stato un crimine di guerra, un crimine contro l’umanità”. E poi si è chiesto, criticando l’ONU per non aver preso posizione in passato: “Quanti altri palestinesi dovranno morire prima che si prendano decisioni? Meritavano quelle persone di morire? Meritavano i bambini di essere portati via dai loro genitori?”. Mansour ha poi ribadito che “l’unica soluzione è quella dei due Stati, capaci di vivere fianco a fianco nel territorio”, ma ha evidenziato che per far sì che questo accada “devono essere liberati i territori occupati da Israele”.

La comunità internazionale ha reagito duramente a quanto successo lunedì 14 maggio. E le posizioni, come già emerso nella giornata di lunedì, si sono chiarite. Da una parte, a sostegno dello Stato di Palestina, in trincea ci sono Egitto e Turchia, che ha espulso l’ambasciatore israeliano da Ankara e ritirato il proprio da Washington. Poco dietro, il Regno Unito (“La quantità di violenza usata a Gaza ieri e il conseguente numero di morti non può essere ignorato dal Consiglio”, ha detto l’ambasciatrice UK Karen Pierce) e la Francia. Che con Emmanuel Macron ha fatto sapere a Netanyahu, in una telefonata, che a Gaza “quelle persone avevano il diritto di manifestare”. E che con l’ambasciatore all’ONU François Delattre, in uno stakeout a fine seduta al fianco degli ambasciatori alle Nazioni Unite di Olanda, Polonia, Svezia, UK, Belgio, Italia e Germania, ha evidenziato: “Ora più che mai è nostro dovere trovare una soluzione di pace che possa porre fine alle violenze. Condanniamo gli scontri di ieri ed esprimiamo la nostra preoccupazione”.
RT @USUN: “I ask my colleagues here in the Security Council, who among us would accept this type of activity on your border? No one would.” pic.twitter.com/gh0ukdqCCp
— Nikki Haley (@nikkihaley) 15 maggio 2018
Dall’altra parte, però, ci sono loro: gli Stati Uniti. Che inaugurando la propria ambasciata a Gerusalemme hanno smosso gli equilibri della regione, già precari. Isolando sé stessi. E ponendosi in modo deciso al fianco di Netanyahu: “Nessun Paese in quest’aula agirebbe con più moderazione di quella mostrata da Israele”, ha detto Nikki Haley, ambasciatrice USA all’ONU, nel corso della seduta d’emergenza di martedì 15 maggio. E ha attaccato: “Chiedo ai miei colleghi qui al Consiglio chi tra di noi accetterebbe questo genere di attività ai propri confini? Nessuno vorrebbe”. E ha concluso: “Non facciamo errori, Hamas è soddisfatto del risultato di ieri”.
Parole forti. Che non aprono spiragli di pace. E che confermano quanto distanti siano le parti tra Israele e Stato di Palestina, all’interno di un conflitto che non cenna ad arrestarsi.