Non passa giorno senza che i media parlino dei migranti (o dei rifugiati o dei profughi). Un problema geopolitico che ha conseguenze rilevanti: basti pensare alla questione dei Dreamers che, negli Stati Uniti d’America, sono costati a Trump l’ennesima figuraccia e lo hanno costretto a fare marcia indietro pur di ricevere l’approvazione del bilancio federale da parte del Congresso; o all’incessante flusso migratorio verso il continente europeo dal Medio Oriente (soprattutto attraverso Grecia e Turchia) e dall’Africa (attraverso l’Italia).
Ciò di cui si parla poco sono i numeri reali di questi fenomeni, le previsioni per i prossimi anni e soprattutto le cause che spingono milioni di persone a lasciare la propria casa e affrontare viaggi di migliaia di chilometri in condizioni terrificanti.
A cercare di dare una risposta a tutte queste domande, è stato l’UNHCR l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ma il cui mandato riguarda le migrazioni in generale). Nelle scorse settimane, inoltre, è stato pubblicato dall’IOM (International Organization for Migration) il WORLD MIGRATION REPORT 2018. Quasi quattrocento pagine piene di dati, analisi e studi (i ricercatori hanno stimato perfino il numero delle pubblicazioni che hanno affrontato questo tema in tutto il mondo nell’ultimo periodo) che, però, non dicono niente di nuovo rispetto alle precedenti edizioni. Il numero dei migranti a livello globale negli ultimi decenni mostra un trend crescente e le cause non sono affatto quelle che si pensa solitamente leggendo i giornali (ovvero le guerre – come le cosiddette “missioni di pace” in Medio Oriente – e le persecuzioni razziali o religiose – come quella dei Rohignya cacciati dal Myanmar guidato dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi).
I dati riportati nel rapporto IOM e diffusi anche dall’UNHCR, per quanto dettagliati e ben presentati, non sembrano sufficienti a spiegare quello che è e, soprattutto, che sarà uno dei fenomeni geopolitici più importanti nei prossimi decenni: parlare di poco meno di 70 milioni di rifugiati nel 2016 con un aumento del 65% rispetto ai cinque anni precedenti è indubbiamente riduttivo. Serve a poco nascondersi (come purtroppo spesso avviene) dietro a giochi di parole, terminologie e basi statistiche ad hoc: in alcuni studi analoghi, ad esempio, si parla solo di rifugiati, in altri di migranti o di “forced migrations”, migranti forzati.
Quasi mai si usa il termine profughi ambientali. Eppure molti studi lo ripetono da decenni: nei prossimi anni, l’umanità dovrà affrontare il problema dei “profughi ambientali”. Il primo ad usare questa definizione, negli anni ‘90, fu Norman Myers, uno fra più autorevoli esperti sull’argomento, che li definì “persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine a causa di fattori ambientali di portata inconsueta, in particolare siccità, desertificazione, erosione del suolo, deforestazione, ristrettezze idriche e cambiamento climatico, come pure disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni. Di fronte a queste minacce ambientali, tali persone ritengono di non aver alternativa se non la ricerca di un sostentamento altrove, sia all’interno del loro paese che al di fuori con stanziamento semipermanente o permanente”. [N.Myers, “Esodo ambientale. Popoli in fuga da terre difficili”, Edizioni Ambiente]
Oggi il numero di persone che decide di lasciare la propria casa per motivi ambientali o perché non è più possibile viverci è molto maggiore di quanto sarebbe pensabile leggendo alcuni report “ufficiali”. Ed è in costante aumento. Il primo motivo che spinge una persona ad abbandonare la propria casa e accettare i rischi di un viaggio senza certezze è che quel territorio è diventato invivibile per motivi ambientali o per l’impossibilità di reperire risorse alimentari.
Secondo l’UNHCR, dal 1970, i flussi migratori sono aumentati sia in termini assoluti che in percentuale sulla popolazione globale. Dal 84milioni di persone pari al 2,3 per cento della popolazione, del 1970 si è passati, nel 2015, a oltre 245milioni di migranti pari al 3,3 per cento. Una percentuale tutto sommato “fisiologica” (sebbene con problemi locali enormi dovuti alla cattiva gestione di questi flussi).
Ma nel prossimo futuro, a seguito dei cambiamenti climatici in atto, questo fenomeno potrebbe subire un aumento esponenziale. E il trend delle migrazioni potrebbe assumere dimensioni esplosive. Sono molti gli studi che lo confermano. E da anni. Nel 2010, Giuseppe De Marzo nel suo libro Buen vivir, per una democrazia della terra aveva previsto un miliardo di persone costrette a diventare “migranti ambientali” entro il 2030. Secondo l’autore una percentuale altissima (e ben diversa da quella attuale) della popolazione mondiale sarà obbligata a migrare a causa del cambiamento climatico, delle privatizzazioni delle risorse naturali, la costruzione dei megaprogetti, l’espropriazione, la criminalizzazione e la guerra.
Previsioni confermate da uno studio presentato a dicembre 2017 dal titolo Food & Migration. Understanding the Geopolitical Nexus in the Euro-Mediterranean, realizzato da MacroGeo e Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition. I ricercatori prevedono che i migranti nel mondo raggiungeranno presto il miliardo di persone! Una massa enorme di profughi ambientali costretti spostarsi all’interno del proprio Paese di nascita e residenza (760 milioni) o in un Paese diverso da quello dove sono nati (245 milioni) per motivi ambientali o a causa di “insicurezza alimentare”. Molti di più di quelli costretti a spostarsi per guerre, solo “un ulteriore 0,4% fugge per ogni anno di guerra”.
Le conseguenze di questi flussi migratori sono inimmaginabili. Basti pensare ai problemi che già oggi causano poche decine di migliaia di persone che attraversano il Mediterraneo o che dal Medio Oriente cercano di entrare in Europa. Per anni i paesi sviluppati (Stati Uniti D’America ed Europa in primis) hanno dimostrato di non essere in grado di gestire flussi migratori tutto sommato fisiologici e di “accogliere” queste persone. Situazione ancora peggiore in molti paesi africani e asiatici dove sono sorti accampamenti provvisori e bidonville dove vivono milioni di persone che speravano di trovare un posto migliore dove vivere migrando verso le grandi città. Già oggi nel mondo circa una persona su trenta è un “migrante”. E gestire questo volume di persone è un problema che i paesi ospitanti e le Nazioni Unite non riescono a risolvere. Nessuno può prevedere cosa accadrà quando questo rapporto diventerà uno a nove (o secondo alcune stime uno a cinque).
Eppure è proprio quello che sta avvenendo. Secondo una stima dell’Onu, entro il 2050, la popolazione mondiale dovrebbe raggiungere 9 miliardi di persone, schizzando a 11 miliardi verso il 2100. Nutrire una tale popolazione richiederà più “terra coltivabile”. Ma l’innalzamento del livello del mare sta riducendo le aree disponibili. Questo costringerà le persone a spostarsi. Entro il 2060, secondo lo studio, i rifugiati climatici potrebbero essere più di un miliardo. La stima è di uno studio dell’Università di Cornell pubblicato sulla rivista Land Use Policy.
Secondo le Nazioni Unite sono centinaia i report (oltre 500 nel 2012, quando ci fu il boom dei flussi migratori nel Mediterraneo e negli USA, ma non meno di 100/200 ogni anno fino al 2016) che confermano queste previsioni: i flussi migratori stanno aumentando esponenzialmente e le cause non sono quelle sbandierate da Tv e radio. Nella maggior parte dei casi, chi lascia la propria casa lo fa per motivi ambientali o perché non è più possibile accedere a risorse alimentari o all’acqua.
Pare che gli unici a non aver compreso il problema dei flussi migratori siano i leader mondiali che continuano a parlare dei conflitti in corso in Medio Oriente o delle poche decine di migliaia di persone che ogni anno cercano di attraversare la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti D’America. Nessuno sa come potranno essere affrontati i problemi legati a centinaia di milioni di “profughi climatici” nei prossimi decenni.
A Davos, dove sono appena finiti i lavori del Word Economic Forum mondiale, vetrina e show al quale pochi leader mondiali hanno avuto il coraggio di rinunciare, nessuno si è preso di la briga di parlare di questi numeri e dei profughi ambientali. Così come nessuno ha avuto il coraggio di parlare di “resettlement”, il ricollocamento dei migranti una volta entrati in un paese (problema che, in Europa, ha dimostrato il fallimento di un sistema di gestione allargata).
Temi che la maggior parte dei successori degli attuali leader troverà inevitabilmente sulla propria scrivania, nei prossimi anni. Ma non oggi.