L’Italia sbarca in Niger. Qualcuno, dell’argomento, ha rilevato innanzitutto l’inopportunità di decidere di inviare soldati italiani nel Paese africano con un voto, di fatto, tenuto a Camere sciolte, e questa è, in effetti, una delle questioni che si potrebbero sollevare sulla missione di recente approvazione. Una, ma non l’unica. Perché, al di là dei rilievi di opportunità politica, l’impressione è che sia ancora poco chiaro quale sarà il ruolo effettivo dell’Italia in un’area – quella del Sahel – nella quale, storicamente, il nostro Paese non ha mai nutrito grandi interessi.
Quel territorio, infatti, ricade sotto la storica influenza geopolitica francese, e in effetti la missione risponde certamente a logiche di collaborazione e partnership con il vicino d’oltralpe, peraltro impegnato, nel contesto europeo, a rafforzare sempre di più un asse franco-tedesco che potrebbe finire per isolare gli interessi italiani. È certamente vero, dunque, che sia anche in quest’ottica che la missione in Niger va inquadrata. Anche perché, nel corso del 2017, Roma e Parigi sono parse a periodi alterni impegnate in iniziative pressoché concorrenziali in Libia, con la Francia di Macron, ad esempio, particolarmente solerte nell’organizzare lo scorso luglio, senza consultare l’Italia, un vertice tra il premier Fayez al-Serraj e il generale Khalifa Haftar. L’impressione, insomma, è che il Belpaese abbia capito che, senza un attivismo da parte sua, il rischio è quello di essere impietosamente sorpassato dai vicini francesi, sempre più persuasi della necessità di fortificare un’intesa strategica con la Germania di Angela Merkel che potrebbe relegare Roma in una condizione di subalternità.
Ma oltre alle logiche europee, ci sono quelle di politica interna. Che pertengono, in modo particolare, alla questione migratoria. Una questione che è stata protagonista – e noi della Voce ve lo abbiamo raccontato nel dettaglio -, lo scorso novembre, della presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza ONU. Presidenza durante la quale la crisi libica è stata più volte oggetto dell’attenzione dei vertici delle Nazioni Unite, anche a causa delle disumane conseguenze che l’accordo tra Italia e Libia ha avuto sulla pelle dei migranti stessi. Cosa c’entra la Libia con il Niger?, si chiederà ora qualche lettore sollecito. È presto detto: è proprio dal Niger che pass la maggioranza dei flussi migratori che, dall’Africa subsahariana, portano in Libia prima e in Europa poi centinaia di migliaia di migranti.
La missione italiana in Niger, nonostante la sua ufficiale finalità anti-terroristica, ha come obiettivo primario proprio il controllo dei flussi migratori verso e attraverso la Libia. Lo schieramento di un contingente forte di 470 militari, 130 mezzi terrestri, due aerei ed equipaggiamenti logistici consentirà all’Italia di stanziare forze proprio a ridosso del confine meridionale del vicino nordafricano, senza però dover fare i conti con l’instabilità e l’anarchia che regnano in quel territorio. Si tratta, insomma, di una sorta di escamotage, al fine di garantire un controllo sul traffico di esseri umani in quell’area tanto delicata, interloquendo però con un Governo – quello di Niamey – che, per quanto debole, resta certamente un partner più stabile e affidabile rispetto a quello di Fayez al-Serraj.
Il tutto, dopo che la presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza si era conclusa con l’annuncio di una nuova iniziativa portata avanti dall’UNHCR e resa possibile anche dal supporto italiano, per realizzare a Tripoli un hub per il trasferimento dei migranti dalla Libia a Paesi terzi disposti ad accoglierli. Nel mese di dicembre, inoltre, Italia e Libia hanno stabilito di istituire una “sala comune” a Tripoli da cui coordinare le attività d’intelligence e le operazioni in mare e sul terreno per combattere le organizzazioni di trafficanti di esseri umani. Nel vertice si è anche parlato della necessità di accelerare le operazioni per il controllo delle frontiere nel deserto a sud della Libia e dello smantellamento di decine di “centri” e prigioni per migranti gestiti dalle organizzazioni criminali, dove migliaia di persone vivono in condizioni inumane e che hanno suscitato le proteste di tante organizzazioni internazionali.
La missione in Niger si potrebbe insomma inquadrare in questo scenario, e in una strategia di controllo dei flussi migratori che sposta il focus sempre più a Sud, nei Paesi di transito dei migranti stessi. E che sia proprio questo il focus del contingente italiano lo si intuisce anche dai numeri e dalla tipologia degli equipaggiamenti, sufficienti giusto per una modesta implementazione dell’accordo firmato a maggio 2017 con Libia, Ciad e Niger, per il monitoraggio dei flussi migratori e l’allestimento di centri di raccolta per i migranti che transitano attraverso quei Paesi. Ma poi restano aperte tante domande, e una su tutte: siamo certi che sia questo il modo giusto (per utilizzare un gergo familiare a noi italiani) di “aiutarli a casa loro”?
Una domanda che, naturalmente, va ben al di là della missione in Niger in sé, ma che riguarda, più in generale, il modo in cui la politica impiega le risorse genericamente destinate alla “cooperazione internazionale”, che dovrebbero servire a contrastare le cause profonde delle migrazioni. Un recente rapporto di Openpolis e Oxfam Italia mette in luce, proprio a questo proposito, come il budget destinato alla Cooperazione internazionale sia una realtà fin troppo oscura e nebulosa. Soprattutto perché, a gonfiare le somme sulla carta destinate agli “aiuti allo sviluppo” vi sono quote crescenti che non vengono impiegate, come dovrebbero, nei Paesi bisognosi, ma restano agli Stati donatori e utilizzati in patria per la gestione dell’accoglienza. Il tutto, nonostante nel Documento di Economia e Finanze (def) del 2017 il relativo capitolo di spesa pubblica venga illustrato con l’espressione: “Un trasferimento di risorse e mezzi in Paesi e aree ancora in difficoltà”.
Non solo: perché oltre ai soldi che ai Paesi poveri non arrivano proprio, bisogna contare anche le risorse effettivamente a loro trasferite, ma impiegate essenzialmente nelle politiche di controllo delle frontiere. Denaro che, va da sé, non viene impiegato in progetti di sviluppo locale e di contrasto delle cause profonde delle migrazioni, ma semplicemente nel contrasto delle migrazioni. È davvero questo che intendono i nostri politici quando parlano di “aiutarli a casa loro”?