Esattamente un anno fa, quando a Davos, in Svizzera, si riuniva il gotha della finanza e della politica mondiale, la tensione nell’aria era palpabile. A Washington stava per insediarsi il Presidente dell'”America First”, quello che poneva all’ordine mondiale costituito, rigorosamente fondato sulla globalizzazione, una sfida senza precedenti. Allora, i partecipanti al Word Economic Forum temevano che quel Presidente – per come si era espresso in campagna elettorale – avrebbe definitivamente affossato il verbo globale su cui essi fondavano il proprio benessere e i propri profitti. Un anno dopo, la tensione c’è ancora, ma ha lasciato il posto, almeno in parte, a un atteggiamento, per così dire, conciliatorio. Conciliatorio tra due posizioni sì diverse, ma non ancorq antipodiche. Non a caso, il New York Times – quotidiano non certo tenero con il Commander-in-Chief – titola oggi: Trump and Davos: Not Exactly Best Friends, but Not Enemies Either.
Un’analisi che ci sembra essenzialmente cogliere il cuore di quanto è andato in scena a Davos in queste ore, che si può leggere sì come un sostanziale tentativo di entrambe le parti di trovare un terreno comune, ma anche, volendo, come la dimostrazione che, in fondo, le posizione originarie non erano neppure così dissonanti come in apparenza. Certo: solo poche ore fa lo sembravano di più. Non a caso, l’arrivo di Donald Trump in Svizzera è stato preceduto da una polemica a distanza con Angela Merkel, che, con un palese ma non esplicito riferimento alla decisione del Commander-in-Chief di imporre dazi su lavatrici e pannelli solari cinesi, ha voluto ricordare quanto importante sia, nel mondo di oggi, il “multilateralismo”. “Oggi, cento anni dopo la catastrofe della Grande Guerra, dobbiamo chiederci se abbiamo davvero imparato la lezione della Storia, e a me pare di no. L’unica risposta è la cooperazione e il multilateralismo”. La Cancelliera aveva poi esplicitato in questi termini il suo pensiero: “Il protezionismo non è la risposta giusta. Dobbiamo trovare risposte multilaterali, non seguire un percorso unilaterale che porta all’isolamento”.
Dal canto suo, Trump, con l’ultimo, dibattuto, provvedimento, ha di fatto dato seguito a quanto largamente promesso in campagna elettorale: mettere, cioè, un freno al “free trade” (peraltro, ad oggi, quella citata è ancora l’unica iniziativa presa nei confronti della Cina), soprattutto quando quest’ultimo si traduce in pratiche che finiscono per svantaggiare una delle parti in causa. E il discorso del Presidente Usa di oggi sembra appunto una risposta alle critiche ricevute nelle scorse ore dalla Cancelliera. Un discorso in cui ha ribadito la sua intenzione di “mettere sempre prima l’America, proprio come i leader di altri Paesi dovrebbero mettere prima i loro rispettivi Stati”. “Ma ‘America first’”, ha poi tuonato Trump, “non vuol dire ‘America sola’”. Perché, ha aggiunto, quando gli Stati Uniti crescono, cresce anche il resto del mondo.
Certo, su quest’ultima notazione ci sarebbe tanto da dire. L’idea che il bene degli Stati Uniti coincida necessariamente con il bene del resto del mondo poteva, forse, essere considerata accettabile fino a un paio di decenni fa, quando ancora il mondo unipolare che Washington si è battuta per costruire non aveva lasciato il posto a un nuovo, ineludibile, multipolarismo. E tutto sommato, è la storia stessa a sconfessare quella idea: si pensi solo alle tante guerre seminate sotto il vessillo a stelle e strisce, servite più a gonfiare i profitti dell’industria bellica statunitense che a esportare quei valori di democrazia e libertà da sempre sbandierati dagli USA. Si potrebbe inoltre osservare che, ad ogni modo, il mondo di oggi non pare più disposto a seguire acriticamente i dettami di Washington, come forse accadeva più facilmente qualche decennio fa.
Fermo restando tutto ciò, è pur vero che, nel seguito del suo discorso, Trump sembra aver ammorbidito i toni. Spiegando come il punto non sia il libero commercio in sé, ma piuttosto il fatto che “non possiamo avere libero commercio se alcuni Paesi sfruttano il sistema a spese di altri”. E ha proseguito: “Noi supportiamo il libero scambio, ma è necessario che questo sia equo e reciproco perché, alla fine, con un sistema commerciale non equo, ci perdiamo un po’ tutti”. E su questo, non si può dire che il Presidente abbia tutti i torti. Il deficit della bilancia commerciale con la Cina è innegabile, e continua a crescere. E i trattati di libero scambio come il TTIP, il Ceta e il TPP sono stati ampiamente criticati per la loro tendenza a favorire delocalizzazioni, sfruttamento del lavoro, compromessi al ribasso su salute e sicurezza e per avvantaggiare immensamente le multinazionali a discapito delle piccole e medie imprese.
A Trump, insomma, bisogna riconoscere il merito di aver contribuito ad aprire un dibattito che forse, altrimenti, non avrebbe mai visto la luce, perlomeno in queste proporzioni. Quanto alle azioni concrete del Presidente Usa, al momento non sembrano così rivoluzionarie in materia: ecco perché, a Davos, sembra aver prevalso la via della conciliazione. Perché è vero che il Presidente ha apposto la croce finale su TPP e TTIP, ma è anche vero che soprattutto quest’ultimo era già ampiamente avviato sulla via del naufragio ben prima di Trump. Sulle iniziative contro la Cina, Trump ha cominciato solo con i recenti dazi a passare dalle parole ai fatti: prima, appunto, erano solo minacce. Il NAFTA, trattato di libero scambio con Canada e Messico che il Tycoon ha sempre detto di voler rinegoziare, per ora è vivo e vegeto. E poche ore prima di Davos, con una scelta tempistica tutt’altro che casuale, Trump ha addirittura aperto a una rinegoziazione dell’accordo trans-Pacifico, seppur in termini più favorevoli agli Usa, e cioè “in modo da arginare il potere della Cina nella regione”.
Il rischio di questo approccio – e più che rischio è un manifesto programmatico per Trump – è che per “libero commercio equo” il tycoon intenda un libero commercio equo, in primis, per gli Stati Uniti. Che è poi, a ben vedere, il rischio insito a ogni approccio puramente sovranista. Resta il fatto che la partecipazione di Trump a Davos sembra aver allentato, più che esasperato, le tensioni internazionali preesistenti. Lo stesso primo ministro pakistano Shahid Khaqan Abbasi – con cui non si può dire corresse buon sangue, vista la recente decisione del Presidente Usa di ridurre drasticamente i finanziamenti al Pakistan – ha dichiarato di averlo trovato “molto diverso da come appare in pubblico”. Un’accoglienza più calda, insomma, di quanto ci si attendeva, che Trump ha strategicamente preparato nelle ultime ore ammorbidendo i toni che l’hanno reso famoso. E non solo per quanto concerne il libero mercato, aprendo alla riconsiderazione del TPP: in un’intervista alla televisione britannica Itv, il Presidente non ha infatti rifiutato, come ci si sarebbe attesi, di scusarsi per aver ritweettato, a novembre, alcuni contenuti islamofobi diffusi da un account di estrema destra britannica. Ma questa, ad ogni modo, è tutta un’altra storia.