Israele e Palestina sono ancora divise lungo la striscia di Gaza, ma unite (forse) dalla paura per le infiltrazioni dell’ISIS. Il mondo torna a guardare con preoccupazione al conflitto israelo-palestinese, che si è riacceso negli scorsi giorni dopo l’attacco del 14 luglio nella città vecchia di Gerusalemme, quando tre assalitori hanno sparato contro un gruppo di poliziotti, uccidendone due. L’attacco aveva portato Israele prima a chiudere la Spianata delle Moschee – dove secondo le autorità israeliane erano state nascoste le armi utilizzate dagli attentatori -, poi a sottoporre l’area a regole più restrittive,

con l’installazione di nuovi metal detector e di telecamere. Una scelta, questa, che ha provocato ulteriori scontri nella giornata di venerdì 21 luglio: da una parte tre giovani palestinesi sono stati uccisi dalla polizia israeliana durante una manifestazione di protesta a Gerusalemme, dall’altra tre coloni israeliani sono stati accoltellati da un palestinese nell’insediamento di Halamish, in Cisgiordania.
Una situazione inaccettabile per le Nazioni Unite. Per questo Svezia, Francia ed Egitto hanno chiesto per la giornata di lunedì 24 luglio un Consiglio di Sicurezza straordinario, con l’obiettivo di far luce su quanto successo negli scorsi giorni e di gettare basi condivise per l’immediato futuro: “Speriamo che i membri del Consiglio mandino un messaggio chiaro a tutte le parti, per lavorare assieme con l’obiettivo di abbassare le tensioni e di scongiurare azioni di violenza”, ha spiegato l’ambasciatore svedese Carl Skau. Mentre l’ambasciatore François Delattre, ha evidenziato come per la Francia le priorità siano tre: raccogliere il briefing di Nickolay Mladenov, coordinatore speciale del segretario generale Antonio Guterres per la pace in Medio Oriente, “discutere delle diverse azioni intraprese dalle parti interessate” e, infine, “acquisire una convergenza di opinioni sui diversi messaggi che ciascuno di noi può trasmettere alle parti coinvolte nella regione israelo-palestinese”.
I buoni propositi però, al momento, si scontrano con la realtà. L’inviato dell’ONU, il russo Nickolay Mladenov ha sottolineato però come sia “estremamente importante che venga trovata una soluzione alla crisi entro venerdì”, giornata di preghiera e papabile sede di nuovi scontri. Anche perché la recente escalation “ha il potenziale di avere conseguenze catastrofiche ben oltre le mura della città vecchia, ben oltre Israele e Palestina, ben oltre il Medio Oriente stesso”. E in effetti, nonostante le difficoltà, un passo in avanti c’è stato: dopo ore di attesa, grazie alla mediazione del re della Giordania Abdallah, Israele ha deciso di togliere i metal detector sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, come era stato richiesto nella mattinata del Consiglio di Sicurezza ONU dall’osservatore permanente per la Palestina, Riyad Mansoursc.
La reazione di Israele però, a margine di quel Consiglio di Sicurezza, nonostante l’imminente decisione di togliere i metal detector era stata molto dura. L’ambasciatore Danny Danon, durante lo stakeout, ha mostrato una fotografia dell’attacco che venerdì 21 luglio ha portato all’uccisione di tre membri di una famiglia israeliana in Cisgiordania: “Invece di condannare questo atto di terrore, i palestinesi cercano di diffondere la menzogna secondo cui l’atto di violenza sia stato colpa di Israele: non credeteci”. Non solo: per l’ambasciatore israeliano “questo attacco non è un incidente isolato. Fa parte di un’onda di terrore nella quale il mondo libero viene spazzato via da cervelli condizionati da insegnamenti d’odio”. Mentre rivolgendosi all’ONU, Danny Danon ha detto: “Il Consiglio di Sicurezza deve chiedere al presidente palestinese Mahmoud Abbas di intervenire immediatamente per porre fine al terrorismo, prima che si consumino altre vittime innocenti”.
E se Israele era stata dura, la Palestina non è stata da meno. “Siamo contrari alla violenza e vogliamo che il Consiglio di Sicurezza assuma la volontà politica di proteggere il popolo palestinese contro la violenza inferta dall’autorità di occupazione israeliana” aveva detto l’osservatore permanente ONU per la Palestina, Riyad Mansoursc. Che ha accusato Israele di “porre ostacoli nel cammino dei fedeli” e ha esplicitato che “la crisi di oggi può essere potenzialmente risolta rispettando la risoluzione 2334”, approvata nel dicembre 2016 dall’ONU, per chiedere a Israele di porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi.
Intanto, mentre il presidente Mahmoud Abbas ha annunciato la sospensione dei rapporti istituzionali con Gerusalemme (che dovrebbero essere recuperati, dopo la rimozione dei metal detector sulla Spianata delle Moschee), un nemico “inatteso” potrebbe aiutare ad avvicinare ulteriormente le due parti in conflitto: stiamo parlando dell’ISIS. I tentacoli dello Stato Islamico, infatti, si sono silenziosamente insinuati all’interno della Striscia di Gaza fin dall’estate del 2014 e sembra che le milizie jihadiste riscuotano una simpatia crescente nella regione israelo-palestinese. Secondo il giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam, Umberto De Giovannangeli, una delle roccaforti dell’ISIS in Palestina è Rafah, nella parte meridionale della Striscia, mentre la penetrazione islamica sembra essersi estesa fino alla Cisgiordania. Non sono ancora chiari i numeri (Israele parla di 800 miliziani, dalla Palestina giungono numeri più preoccupanti, 4mila), ma le due parti lungo la Striscia di Gaza concordano su un fatto: l’ISIS può diventare un avversario comune contro cui unire le forze.
Il sedicente Stato Islamico infatti considera “nemici di Allah” tutti gli attuali protagonisti del conflitto israelo-palestinese: da Gerusalemme ad Hamas, fino all’Autorità Nazionale palestinese. Realtà che “vanno combattute sangue per sangue, distruzione per distruzione”, come spiegato dai miliziani jihadisti in un video divulgato sui social media, due anni fa. E la voce dell’ISIS sembra attirare tutti quei palestinesi stanchi sì di Israele, ma anche dei movimenti che non garantiscono la stabilità oggi Palestina. Secondo i fondamentalisti islamici sia Mahmoud Abbas che Benjamin Netanyahu, sia i gruppi di Gaza che quelli di West Bank operano sotto l’influenza dell’occidente o dell’Iran. E molti, in Palestina, sembrano pensarla allo stesso modo. Che possa essere proprio l’ombra sempre più invadente dell’ISIS, a sedare definitivamente la nuova crisi di Gaza tra Israele e Palestina?