Anche l’Africa accoglie i suoi rifugiati, mica solo l’Europa. Qui nel West Nile, estremo nord dell’Uganda, terra povera ma molto fertile, in passato arrivavano dal Sudan. Nel 2013 invece hanno cominciato ad arrivare dalla Repubblica democratica del Congo, in seguito ad una ennesima esplosione di violenza. Il Nord dell’Uganda ne ha accolti fino a 15.000. Il modello di accoglienza lo vediamo a Koboko, una delle tante cittadine africane cresciute disordinatamente lungo una main road: ai profughi è stata data della terra, assieme agli attrezzi per coltivarla e alle sementi. In questo modo, li si è aiutati a diventare progressivamente indipendenti, e al tempo stesso ad integrarsi con la popolazione locale. Il tutto con la benedizione dell’UNHCR.
La formazione è garantita dalla scuola agraria di Jabara, aperta dall’Acav, qualche anno fa una ONG italiana che ora sta progressivamente passando sotto il controllo delle autorità distrettuali ugandesi. La scuola di Jabara forma tanto i rifugiati quanto i contadini locali, con training che durano generalmente una settimana, a cui partecipano sia uomini che donne (portandosi appresso i loro bambini). Oltre a potenziare le colture per il consumo familiare (cassava) si introducono nuove varietà per il mercato: dagli alberi da frutto (come il mango), ad alcune varietà di legumi che vengono acquistate da una multinazionale coreana.
Nel West Nile – terra che diede i natali al tristemente celebre Idi Amin, uno dei più noti dittatori africani – l’indice di povertà è doppio rispetto alla media nazionale ugandese. Ma non si vedono le situazioni di degrado proprie degli slum metropolitani. Il 99 per cento della popolazione vive di agricoltura. La terra appartiene al clan, e si trasmette per via patrilineare. Il land grabbing non è ancora penetrato massicciamente: in qualche distretto dove si è provato ad affittare la terra alle multinazionali, i clan si sono opposti. Dei clan è anche la terra che viene destinata alle scuole e ai dispensari aperti dalla cooperazione internazionale. Lavorare in collaborazione con ogni genere di autorità locale è un imperativo categorico se si vuol fare qualcosa che duri nel tempo.
A vederlo oggi, nonostante la vicinanza con due paesi dove ancora soffiano venti di guerra, il West Nile sembra una tranquilla provincia agricola. Qui la pace è arrivata nel 2002: in precedenza era attivo un movimento separatista, scontento delle attenzioni riservate a questa zona remota dal governo centrale ugandese. Fra il Nord dell’Uganda e il Sud Sudan agiva anche lo Lra-Lord Resistance Army, che calava sui villaggi per rapire i giovani e farne bambini soldato o schiavi/e (oggi dileguatosi verso la Repubblica Centrafricana, dove caccia di frodo gli elefanti per vendere l’avorio). La pace – giunta con un’amnistia generale e l’acquisto da parte del governo delle armi che prima appartenevano ai ribelli – ha portato i suoi frutti: energia elettrica, strade migliori, scuole dappertutto, un’università nella capitale regionale, Arua, partnership con amministrazioni regionali estere (ad esempio quella del Trentino, qui presente da trent’anni). Un progetto ONU ha appena avviato alla formazione professionale un migliaio di giovani: quasi tutti, ci spiegano, hanno trovato subito lavoro perché sono in pochi ad avere in mano una professione come il falegname o l’elettricista.
Questa è anche una terra ricca di acqua, essendo interessata dal corso del Nilo e dalla presenza di grandi laghi. Ma molte comunità sono ancora prive di acqua potabile e le colture irrigate artificialmente sono quasi inesistenti. Scavare un pozzo costa dai 7-8 fino ai 12 mila dollari (più costoso in Sud Sudan, dove in questo momento, a causa delle cattive condizioni della sicurezza, poche società sono disposte a lavorare, meno in Uganda, dove la situazione sociale e politica è tranquilla). Il pozzo viene gestito da un comitato locale e per accedervi le famiglie versano una quota, che garantisce la manutenzione periodica.
Andiamo a nord. La strada asfaltata si interrompe sul confine con il Sud Sudan: oltre il fiumiciattolo che divide i due paesi, inizia una pista infame di terra rossa.
Il Sudan del Sud è il più giovane paese africano. È nato nel 2011 staccandosi dal Sudan musulmano, centralizzatore e oppressore, al termine di una guerra trentennale. Due anni dopo è scoppiata una guerra civile, formalmente etnica (si fronteggiano Dinka e Nuer, popolazioni molto simili, dedite entrambe alla pastorizia), in realtà alimentata anche presenza del petrolio, e dagli appetiti che scatena.
La guerra ha quasi azzerato i traffici fra l’uno e l’altro versante della frontiera. Uno dei commerci residui è quello del qat, un eccitante legale in Uganda ma vietato in Sud Sudan (dove invece è legale la marijuana). Il traffico è gestito da avventurosi motociclisti.
Andiamo a Morobo, a vedere l’inaugurazione di una scuola professionale o “vocational training center”, approvata dal governo centrale e anche dall’UNICEF. Cerimonia lunga e complessa, a tratti anche teatrale, che coinvolge le autorità locali e gli anziani del clan. Molti i militari presenti e molte le armi, per proteggere sia gli europei che le autorità. Anche qui troviamo i rifugiati, provenienti dalla RD Congo, che inizia sull’altro lato della strada. Potrebbe sembrare strano che dei profughi si rifugino sul territorio di un altro paese in guerra. In realtà, qui l’idea di frontiera è molto aleatoria. Prima del colonialismo (belgi in Congo, inglesi in Sudan e Uganda) non c’erano confini. Anche oggi la gente – in gran parte di etnia kaqwa – rivendica il diritto di passare liberamente da uno stato all’altro e, se necessità impone, lo fa.
La storia dei profughi dal Congo è interessante: tutto è partito da un gruppo di banditi che scorrazzavano liberamente nella regione. La popolazione congolese che ne faceva le spese si è organizzata: qualcuno lo hanno ucciso, qualcun altro lo hanno catturato e consegnato alla polizia. “Durante la notte – ci raccontano – mentre la polizia scortava questi criminali in prigione, qualcosa è successo. In pratica, sono scappati o sono stati fatti scappare perché godevano di qualche protezione. A quel punto, una parte dei locali si è sentita ingannata e ha deciso di imbracciare le armi. È scoppiato l’ennesimo conflitto e, come conseguenza, molte famiglie hanno dovuto lasciare la loro terra”.
Al momento i ribelli, i “Gorillas”, come li chiamano, sono “dormienti”. Alcuni sono tornati alla vita di prima, altri sono stati uccisi. Nel frattempo i profughi si sono ambientati in Uganda e Sud Sudan. “Ma non pensate sia per sempre – ci dicono – Quando ci saranno le condizioni per tornare a casa nostra lo faremo. Ogni profugo in fondo al suo cuore vuole tornare”.