La partita decisiva contro il terrorismo – in tempi di web 3.0 – si gioca anche e soprattutto in rete, dove il nero non è soltanto il colore dell’oro che ha fruttato all’Isis miliardi di dollari, ma distintivo del vessillo del gruppo, marchio di una propaganda che conquista, inarrestabile, sostenitori e terreno in un conflitto virtuale non meno invasivo e proficuo di quello reale.
La rivendicazione dei drammatici eventi di Parigi, avvenuta attraverso i suoi canali di comunicazione ufficiali e rilanciata via social dal Califfato, mostra una volta di più l’altra faccia del terrore, quello postato, ritwittato, condiviso sulle bacheche di sostenitori, affiliati o semplici simpatizzanti dell’organizzazione guidata da Abu Bakr Al Baghdadi, la cui rete mediale è arma strategica nel progetto di espansione transnazionale di un’ideologia estremista e totalizzante.
Miscela esplosiva è un utilizzo sapiente e pianificato dei nuovi media, unito a tecniche e format mutuati proprio dall’Occidente “corrotto e crociato” tanto osteggiato dall’autoproclamato Stato islamico, che fa propri i modelli della comunicazione mainstream anglo-americana per imbastire una campagna promozionale che spiazza nemici e assolda foreign fighters a colpi di “mujatweets” e magazine patinati in lingua inglese.
Per la regia del Califfato, circolano sul web versioni in chiave jihadista di celebri videogiochi americani, come Grand Theft Auto, i cui protagonisti vengono avviati alla carriera di mujaheddin anziché a quella dei furti d’auto, e video dagli scenari apocalittici i cui effetti speciali e sonori richiamano i western e una cultura e un’estetica cinematografica tipiche delle pellicole d’azione hollywoodiane.
Target strategico dei messaggi del sedicente Stato islamico sono le seconde e terze generazioni di immigrati musulmani in Occidente, tra i soggetti più sensibili e, al contempo, veicolo privilegiato dell’ideale di guerra santa presso i loro coetanei cresciuti in Europa o America. Il richiamo all’azione, declinato attraverso banner pubblicitari o motivi musicali a sfondo religioso (Nasheed) si fonda sui temi del martirio e della guerra a miscredenti, apostati e crociati. L’invito a unirsi alla causa jihadista è supportato da e-book contenenti istruzioni per assediare determinate aree, Europa compresa, infografiche sull’organizzazione e sulle modalità per raggiungerne i territori.
Su Twitter, la propaganda del terrore fa uso di hashtag mirati o, al contrario, talmente popolari e trasversali da consentirne la massima diffusione, come il virale #WorldCup, lanciato durante il Campionato Mondiale di Calcio del 2014, o il più recente #Parisburns. Circolano inoltre i cosiddetti “mujatweets”, brevi estratti di video di propaganda distribuiti in forma di preview o reminder, secondo una logica tipicamente pubblicitaria: audio d’ambiente e primi piani dei testimonial del Califfato caratterizzano i filmati, che raccontano in maniera soggettiva e accattivante la vita quotidiana nei territori conquistati, mentre sullo sfondo i bambini giocano e i mercati brulicano di gente e merci.
IS propone programmi di contro-informazione e documentari che dipingono come idilliaca e armoniosa la situazione in Siria e Iraq. Racconti affidati, per citare un celeberrimo esempio, a professionisti come John Cantlie, giornalista britannico divenuto prigioniero e cassa di risonanza dello Stato islamico, dapprima nella veste di anchorman (mezzobusto in tuta arancione di Guantanamo), poi come reporter inviato per le strade delle città roccaforti del Califfato e quale firma di punta del magazine Dabiq.
Rivista-megafono dell’Isis pubblicata in inglese, Dabiq fa la sua comparsa online nel luglio 2014, presentandosi quale prodotto editoriale moderno e occidentalizzato dagli alti standard di impaginazione e grafica, ricco di fotografie a tutta pagina che ritraggono esplosioni spettacolari, edifici avvolti dalle fiamme, barbare esecuzioni da parte di giovanissimi guerriglieri sprezzanti del pericolo. Sempre attento al dibattito mediatico e politico occidentale, il magazine pullula di citazioni del Corano opportunamente strumentalizzate e offre interviste a combattenti e prigionieri, reportage dal campo, pezzi di analisi e rubriche, come l’emblematica In the words of the enemy. Tra le novità degli ultimi numeri, emergono Selected 10, una sorta di hit parade del jihad con i filmati del terrore più visualizzati in rete, e spazi pubblicitari che sponsorizzano il rilascio di nuovo materiale audio-video targato Isis.
Per realizzare materiale di qualità, il gruppo si è dotato di vere e proprie case di produzione. Tra le principali vi è Al-Furqan Media Foundation, la stessa che ha conquistato le prime pagine dei Tg attraverso la diffusione dei video degli sgozzamenti. Estremamente prolifica è poi Al-Hayat Media Center, fondata da un rapper tedesco convertitosi al jihad, che produce materiale audio-video ed editoriale di ampio successo sul web, in diverse lingue europee.
Appare dunque chiaro come la capacità eversiva del mezzo che diffonde il messaggio necessiti di contro-strategie mirate e diversificate, per tentare di arginare la portata della propaganda dell’Isis in uno spazio virtuale che si fa anticamera del campo di battaglia.
A raccogliere in parte la sfida, in queste ore, parrebbe essere Anonymous: la comunità virtuale di hacker, che già in passato aveva attaccato in rete lo Stato islamico, ha fatto sapere di avere oscurato 5500 account del Califfato su Twitter, nell’ambito delle operazioni #opISIS and #opPARIS, e di avere consegnato i dati personali di alcuni sostenitori all’Esercito libero siriano.
Ma il giorno dopo “Je suis Paris”, quando il vociare sordo di troppi commentatori dell’ultima ora pare affievolirsi, potrebbe anche esser tempo dell’ascolto, quello attento, necessario a comprendere quali strumenti e quali messaggi rendano l’affabulazione di IS tanto attraente in una realtà frammentata e ricontestualizzata come quella dei nuovi media, ormai parte autonoma del conflitto internazionale.