Da una decina di giorni la Colombia si gode l’accordo dell’Avana, la cui sigla ha avviato la pacificazione tra stato e Forze Armate Rivoluzionarie, Farc. Con la mediazione di Santa Sede e Cuba, il presidente Juan Manuel Santos e il leader ribelle Rodrigo Londoño, noto come "Timochenko", si sono stretti la mano in pubblico, insieme al presidente Raúl Castro, annunciando l’ultima tappa di un percorso che, benché contrastato, metterà fra sei mesi fine al conflitto che ha causato centinaia di migliaia di morti. Le trattative, in piedi da tre anni, sono arrivate al quinto e ultimo punto: la creazione di un tribunale ad hoc incaricato di giudicare i delitti commessi, dai due schieramenti, in sessant’anni di conflitto, e risarcire le vittime dei crimini perpetrati: deportazione di comunità contadine e confisca delle loro terre, narcotraffico, assassini, stragi, milioni di rifugiati, esecuzioni ingiustificate, arruolamento di bambini e bambine, prostituzione.
Fra un anno, i guerriglieri lasceranno le armi e punteranno alla via politica per affermare le loro idee, attraverso un movimento che parteciperà alle elezioni. Il perdono generalizzato riguarderà innanzitutto i soldati semplici, che verranno reinseriti in vario modo nella società. Diverso il trattamento delle persone in ruoli di comando. Se si pentiranno e collaboreranno, subiranno pene tra i cinque e gli otto anni, altrimenti rischieranno sino a vent’anni di prigione.
Ci si può chiedere come mai l’istituzione del tribunale sia stato uno dei maggiori ostacoli all’avanzata dei negoziati, iniziati quasi tre anni fa. La risposta può essere intuitiva, e ha a che vedere con le responsabilità penali diffuse che nel governo e nell’opposizione clandestina si sono andate sviluppando negli anni di guerra. C’è un’ulteriore risposta: per riuscire nella pacificazione, il popolo colombiano ha bisogno di tempo, perché deve sottoporsi ad una sorta di rieducazione collettiva, che sopisca gli odi e faccia crescere, almeno nelle giovani generazioni, lo spirito collettivo della solidarietà nazionale e dei doveri verso lo stato, nel rispetto delle leggi, di ogni opinione, di ogni ricchezza purché accumulata onestamente.
Sotto questo profilo, interessante la lezione che viene dal colombiano Durán Fernández, che ha appena presentato il saggio su “La necesidad de una educación que acentúe la justicia social en el contexto de los diálogos entre el gobierno colombiano y la guerrilla de las Farc”. La tesi è che nessuna società sia in grado di darsi pace e mantenerla, se non dopo aver affrontato un lungo e ampio processo di educazione e consapevolezza, mirante a creare le condizioni culturali e politiche per la realizzazione di un’autentica e duratura giustizia sociale. Il reinserimento nelle attività sociali ed economiche dei “deviati” nella violenza delle forze armate e della guerriglia, ora smobilitati, dovrebbe transitare attraverso la formazione ai valori della giustizia sociale. Il percorso appare l’unica garanzia credibile, contro il rischio del ritorno, nel giro del poco tempo che passa tra speranza e disperazione, al ghetto dell’estremismo e della lotta armata fratricida.
I contenuti di questa formazione per il reinserimento, devono costruire attitudini e comportamenti propri della solidarietà “civile”, in contrasto con la pratica della violenza e della repressione della società castrense. L’autore rileva come questo aspetto risulti assente dall’agenda del dialogo cubano sul futuro della Colombia, gettando l’ombra del dubbio su durata e completezza di un risultato, che viene tuttavia salutato con gioia, non solo dai colombiani.