Ogni giorno la televisione, i giornali ci portano in casa le immagini di un esodo memorabile. Profughi che fuggono da una guerra, profughi che scappano dalla povertà sperando in una Europa ricca che li aiuti, gli dia un lavoro, li integri in un benessere talvolta solo di facciata. Le immagini del piccolo Aylan Kurdi morto su di una spiaggia a lui sconosciuta coprono le pagine di tutti i giornali, come simbolo di una tragedia assurda, ma che ha fatto centinaia di migliaia di morti, alcuni dei quali mai visti perché inghiottiti dal mare. Non solo più l’Italia deve intervenire per salvare e arginare i migranti che vengono dall’Africa, ma anche il resto d’Europa che si trova all’improvviso con un esodo inatteso, attraverso l’Ungheria, la Croazia, la Slovenia, la Macedonia, solo per citare alcuni paesi impegnati a contrastare l’arrivo di coloro che fuggono. La Germania si attiva, ma poi si ferma, anche per loro è troppo forte l’impatto dei migranti.
Di fronte a tutto questo il ricercatore si chiede: ma per chi e per che cosa sto studiando? Per sostenere un mondo doloroso e migrante? Per mantenere un mondo senza compassione in cui le grandi multinazionali si arricchiscono sempre di più, anche sfruttando chi fugge? Eppure il mio lavoro dovrebbe servire ad un mondo migliore, verso un migliore utilizzo delle risorse naturali, per un benessere crescente, per scoprire nuove e migliori medicine contro nuove e rare malattie.
E’ uno sguardo doloroso verso il proprio lavoro. Cercare una nuova particella, guardare i monti di Plutone, scoprire l’Homo Naledi, diventano marginali di fronte alla vera e propria emergenza di questi popoli in movimento. Tutto il sapere del ricercatore sembra nulla potere, non serve all’emergenza. Il lavoro del ricercatore ha una passo lungo, forse diventerà utile dopo 5-10 anni, forse mai, pur contribuendo a formare le idee di altri. Una sensazione di impotenza, mentre tutto d’intorno si veste di tragedia.
Qui è la politica che manca, ma è tanto che manca anche senza una emergenza come quella attuale. Dell’Africa nulla importa se non per depredarla delle materie prime necessarie allo sviluppo della nostra società. Le guerre che in Africa hanno origine si muovono in funzione degli interessi di questo o di quel paese, mai dell’Africa stessa. Si rompono gli equilibri finanziando una fazione verso l’altra poi, l’altra verso quella di prima in una visione tutt’altro che finalizzata a garantire la pace e lo sviluppo della popolazione locale. In questo caos qualcuno, pochi e sempre gli stessi, traggono dei vantaggi, mentre nel frattempo la popolazione fugge alla ricerca di pace e di una nuova vita.
L’Europa non ha mai avuto una politica verso l’Africa, se non quella coloniale, mai tanto deprecata, ed ora cerca di ricorrere ai ripari, malamente e senza una coordinamento. Un processo che durerà decine di anni viene gestito alla bisogna, senza un vero e proprio piano, tamponando ogni giorno la marea dei profughi, mentre bisognerebbe mettere le basi di una nuova società nella quale integrare questi flussi migratori, pacificare i territori al di là del Mediterraneo portando lavoro e progresso.
Per questo servono ricercatori: la scienza è una parte delle attività umane, dal metodo scientifico si possono trarre quegli strumenti che permettono di vivere meglio, anche prevedendo e pianificando. Rimane comunque il dolore di vedere tante vite umane sacrificate e questo non può essere lenito.