Il colpo di stato in Burkina Faso non è un buon segnale, in un’Africa che sembrava aver imboccato, dopo la decisione dello scorso giugno sulla creazione entro il 2017 dell’Area panafricana di libero scambio, ben altro cammino. C’è da sperare che si tratti di una sorta di riflesso condizionato dei gorilla militari più che della ripresa di un vezzo della politica africana, il golpismo, che tanto male ha fatto al continente.
Quell’accordo fu da molti interpretato come una cesura con il passato di divisioni e guerre, non tanto, o non solo, per l’obiettivo che si dava, ma perché decideva di unificare in una sola organizzazione le tre aree commerciali africane: la Comunità sudafricana dello sviluppo (Sadc),la Comunità est-africana (Eac), il Mercato comune per l’Africa orientale e del sud (Cmesa). Il “Tripartite Free Trade Area” eliminava in un sol colpo il proliferare delle burocrazie della cooperazione commerciale regionale, e avviava la formazione di un solo grande mercato che dal Cairo a Cape Town avrebbe presto messo insieme più di 600 milioni di persone.
Senza esagerare la rilevanza di un documento che attende la ratifica di 26 parlamenti, non si può non riconoscere che dopo decenni di dibattito ammirato sulle fortune politiche ed economiche dell’Unione europea, l’Africa abbia imboccato il cammino dell’integrazione, per darsi riforme e sviluppo. Tanto più rilevante quella decisione, perché la volontà dei governi non si è espressa all’interno di un quadro critico, ma nel pieno di un robusto e continuato trend di crescita.
Nel rapporto Ocse sull’Africa, si rileva come il continente crescerà del 4,5% quest’anno e del 5% nel prossimo, consolidando numeri che, negli ultimi dieci anni si sono regolarmente ripetuti. Se non ci fosse stato, nel presente decennio, il rallentamento dell’Africa australe collegato alla situazione del Sudafrica, si sarebbe visto anche di più, dato che, nel periodo, Africa Occidentale e Orientale sono cresciuti a tassi annuali rispettivamente, del 6 e 7%. A favorirle hanno concorso gli investimenti diretti esteri (Ide), che stanno raggiungendo, nel 2015, i 73,5 miliardi di dollari, spinti in particolare dalle presenze “greenfield” della Cina che, da tempo ha scommesso sul recupero del continente nero, costruendovi una riserva proprietaria di biodiversità, e diventandone il secondo partner commerciale dopo l’Ue. Non si tratta di un processo a senso unico: l’Africa sta aumentando il livello dei suoi investimenti all’estero, anche perché 17 paesi sul totale di 54, hanno raggiunto indici di sviluppo umano che li collocano ai livelli medio alti del ranking mondiale. Stati come Sudafrica, Botswana, Ruanda, Namibia, Ghana documentano un clima d’affari che non ha molto da invidiare a quello di paesi più ricchi. Anzi, in quanto a riforme e certezza del diritto, possono dare punti a diversi partner europei e latinoamericani.
Restano, certo, i casi di violenza politica ed etnica ma, a guardarli sulla curva della storia dell’ultimo mezzo secolo, ci sono stati momenti peggiori. Restano, piuttosto, da superare le troppe diseguaglianze socio-economiche, i fossati culturali e di apprendimento, le malattie endemiche e le carenze igieniche. Sono elementi che minano alle fondamenta ulteriori possibilità di sviluppo e miglioramento del quadro continentale. Correttamente l’Unione Africana ha scritto che serve la “trasformazione strutturale”, fissandone il traguardo al lontano 2063. Sul suo ottenimento non potrà non influire anche la curva demografica, incrementale in termini di quantità, ma lontana dal potenziarsi in termini di qualità. Su questo, Usa e Ue possono molto: servirebbe anche a limitare l’ulteriore espansione nell’Africa subsahariana che la Cina sta pianificando.