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Europa, fa che i rifugiati siriani vengano alla Merkel. E gli africani? Se li prenda l’Italia

James HansenbyJames Hansen
Angela Merkel visita un gruppo di rifugiati siriani a Berlino (Foto Afp)

Angela Merkel visita un gruppo di rifugiati siriani a Berlino (Foto Afp)

Time: 3 mins read

More “Real World” — Possiamo parlare in maniera sgradevolmente utilitaristica per un momento? Gli amici si sono sorpresi per l’improvvisa decisione della Germania di assorbire un bel numero di rifugiati siriani, supponendo forse che quel Paese avesse rivelato un insospettato lato sentimental-umanitario. Non è detto che le cose stiano esattamente così. Se la scelta della politica da adottare nei confronti dei nuovi profughi si riduce in ultima analisi a quella tra mitragliarli ai confini o nell’acqua, oppure di accettarli, allora la strada futura è già in qualche modo obbligata. La Germania si è piegata all’inevitabile e ha fatto una scelta ottimale tra alternative poco attraenti.

L’Italia non ha una grande esperienza moderna nell’assorbimento degli immigrati e non distingue tra le tipologie: vede solo una massa indiscriminata di stranieri straccioni che premono sui confini. Il fatto è, per l’esperienza dei paesi più “rodati” in materia, i siriani presi nell’insieme risultano integrabili e utili. La loro società, malgrado la guerra civile e i tremendi titoli sui giornali, è più avanzata e sviluppata di quelle dell’Africa sub-sahariana. Negli Stati Uniti—parecchio avvezzi all’immigrazione—i figli di immigrati siriani che hanno “fatto strada” negli ultimi tempi comprendono il fondatore dell’Apple, Steve Jobs, il comico Jerry Seinfeld, la cantante Paula Abdul, l’attore Premio Oscar Murray Abraham e una sfilza di medici e scienziati.

In altre parole, se devi per forza accettare un gran numero di rifugiati, allora prendili buoni—e la Germania, per quando verrà il momento di distribuire i profughi relativamente meno “pregiati” che arrivano in Italia attraverso la Libia, avrà “già dato”… E’ disdicevole considerare le cose in questi termini, ma è il modo di ragionare, a volte terribilmente concreto, delle cancellerie più avvedute.

 

Archeologia glaciale — Secondo il molto rispettabile giornale scientifico Science, il riscaldamento terrestre—e il conseguente ritiro dei ghiacciai un po’ dappertutto—avrebbe generato una nuova disciplina scientifica: l’archeologia glaciale. Si tratta dello studio degli artefatti e le altre tracce umane portati alla luce dai ghiacci che si sciolgono.

La specialità nasce con il ritrovamento nel 1991 sul confine alpino tra l’Austria e l’Italia della “Mummia del Similaun”, soprannominato Ötzi, un cacciatore dell’Età del rame rimasto congelato per circa 5mila anni dal freddo di alta montagna. I resti, dapprima contesi tra i due paesi, sono ora conservati a Bolzano, al Museo Archeologico dell'Alto Adige. La scoperta è stata seguita da altre, simili, compresa la “Vergine congelata”, detta Juanita, una ragazza inca morta alla metà del 15° Secolo, ritrovata in Argentina.

Emergono dai ghiacci anche tanti oggetti di fabbricazione umana. In Norvegia: guanti, scarpe, perfino un bastone da passeggio, tutti dell’Età della pietra; nelle montagne dello Yukon canadese una selezione d’armi, compreso un atlatl, un dardo da caccia vecchio di 10mila anni; e così via.

Le scoperte sono interessanti, ma il contributo all’infinito dibattito sull’impatto dell’ “effetto sera”—e le sue cause—è incerto. I ritrovamenti comunque dimostrano in modo inconfutabile che queste zone, rimaste coperte dal ghiaccio per millenni, già in passato erano esposte al sole e praticate dall’uomo

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli.

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