La decisione del presidente turco Recep Tayyp Erdoğan di indire le elezioni anticipate segna una nuova tappa nel turbolento processo di trasformazione del Medio Oriente.
La crisi politica turca si è aperta, ufficialmente, con le elezioni del 7 giugno scorso, quando il partito di Erdoğan – l’AKP – ha perso la maggioranza assoluta per la prima volta dal 2003. In realtà, essendo il prodotto della combinazione di fattori interni e internazionali, quella crisi è iniziata almeno due anni prima, quando il colpo di Stato in Egitto ha messo bruscamente fine alla velleità di fare della Turchia il punto di riferimento delle giovani democrazie sorte dalle “primavere arabe”.
Quella velleità era sostanziata da una crescita economica sostenuta e regolare e dal processo di demilitarizzazione della società, che avevano caratterizzato i primi dieci anni del governo islamista democratico di Erdoğan. Se quei successi avevano fatto della Turchia il modello ideale delle piazze arabe in rivolta, ne avevano anche fatto la bestia nera dell’Arabia Saudita, che trovava un concorrente in più nel suo tradizionale tentativo (regolarmente frustrato) di stabilire la propria egemonia sul mondo arabo sunnita.
Il colpo di Stato del generale Fattah al-Sisi in Egitto ha fatto di nuovo pendere la bilancia dalla parte dell’Arabia Saudita. Da quel momento, la Turchia ha deciso di concentrare i suoi sforzi sull’ipotesi di regime change in Siria, sostenendo direttamente e indirettamente tutti i nemici di Bashar al-Assad, compreso l’ISIS. Il fatto che anche l’Arabia Saudita sostenesse tutti i nemici di Bashar al-Assad, compreso l’ISIS non ha attenuato la rivalità tra le due potenze sunnite: in politica internazionale non è infrequente che due paesi antagonisti sostengano la stessa causa con finalità diverse e per evitare di lasciarne gli eventuali benefici all’avversario.
In Siria, la Turchia si è trovata opposta a un rivale storico di stazza ben superiore all’Arabia Saudita: l’Iran. Tuttavia, la relazione di Ankara con Teheran non è paragonabile a quella con Riyad: sia per i legami storici ed economici tra Turchia e Iran, sia, soprattutto per l’assenza di sovrapposizione tra le aree di tradizionale espansione persiana e le aree di tradizionale espansione turca, eccetto nella regione cruciale della Mesopotamia. Ma è proprio il possibile compromesso in Mesopotamia a fare la differenza: se le zone sunnite (ora sotto controllo dell’ISIS) passassero sotto protezione turca e quelle sciite restassero sotto protezione iraniana, la sorte di Bashar al-Assad diventerebbe, a quel punto, una postilla burocratica.
Il riavvicinamento tra Teheran e Washington dovrebbe aver accelerato il movimento. Nel nuovo contesto, Ankara non può restare prigioniera di una coalizione anti-iraniana che ridurrebbe i suoi margini d’azione e la svierebbe dal suo obiettivo principale. Da qui l’interesse a lanciare un chiaro segnale all’ISIS (che non potrebbe resistere contro un vero esercito), e di consolidare il legame atlantico con gli Stati Uniti, che resta, malgrado tutte le giravolte, il più importante caposaldo della politica estera turca. Se Ankara ricucisse anche lo strappo con Israele (ipotesi tutt’altro che improbabile), si ricreerebbe – per quanto in forme totalmente differenti – quel triangolo formato dai tre paesi non arabi della regione che per decenni ha costituito l’asse portante dell’influenza americana in Medio Oriente.
È in questa luce che andrebbe vista la “svolta” di fine luglio, caratterizzata dagli attacchi contro l’ISIS e, soprattutto, contro i curdi vicini al PKK. Sul fronte ISIS, gli attacchi sono pressoché cessati, e quel che resta della “svolta” è l’apertura della base aerea di Incirlik alla “coalizione” anti-ISIS (di fatto, agli Stati Uniti); sul fronte curdo-PKK, invece, è guerra aperta.
Ma – occorre sottolinearlo – la Turchia non è contro i curdi in generale, ma contro una delle numerose frazioni in cui il nazionalismo curdo è frammentato. In passato, Ankara si è servita dei curdi come pedina regionale, di volta in volta contro la Siria, contro l’Irak e contro l’Iran. La Siria, a sua volta, ha tradizionalmente sostenuto, addestrato e finanziato i curdi del PKK per servirsene contro la Turchia (e l’Iran ha sostenuto i curdi irakeni contro Saddam Hussein).
Le azioni militari contro il PKK avvantaggiano le altre frazioni curde, e tra queste le due al potere nel Kurdistan irakeno: il Partito democratico, tradizionale alleato della Turchia, e l’Unione patriottica, tradizionale alleato dell’Iran. Inoltre, le azioni militari contro il PKK hanno dei risvolti di politica interna particolarmente importanti in questa fase di indebolimento dell’AKP: rappacificare il governo di Erdoğan con i militari e con quei settori del nazionalismo – di destra e di sinistra – da sempre ostili al riavvicinamento con i curdi di Turchia; e al tempo stesso tentare di demonizzare il partito curdo HDP che, con il 13% ottenuto a giugno, ha sottratto all’AKP la maggioranza assoluta.
La scommessa di Erdoğan è però tanto razionale quanto rischiosa: l’azione militare contro il PKK potrebbe rendere l’ISIS assai meno malleabile di quel che si spera ad Ankara; potrebbe riportare stabilmente il terrorismo curdo sul territorio turco, invelenendo i rapporti con un gruppo etnico che rappresenta il 25% della popolazione del paese. Infine, potrebbe non bastare a far vincere all’AKP le elezioni generali riprogrammate per novembre. Il cui esito dipende molto più dall’evoluzione dei rapporti di forza in Medio Oriente che dai calcoli spericolati di Erdoğan.