Con la ripresa di settembre in vista, il mondo appare pronto a regalarsi nuovi grattacapi. In Asia l’accentuata regressione della crescita cinese e gli accenni di stagnazione giapponese (nonostante la politica espansiva del primo ministro Abe, nel secondo trimestre il pil è arretrato dello 0,4% su base congiunturale e dell’1,6% su base annua, con un drammatico calo degli investimenti), sta mettendo a sedere un po’ tutti gli emergenti del sud est asiatico, rilanciando interrogativi sulla possibilità di ripresa europea e sull’ulteriore tenuta del buon livello della crescita statunitense.
L’andamento erratico dell’economia cinese e dello yuan avrà conseguenze globali, molto più di quanto si dia ad intendere. Sconteremo le sensibili ripetute svalutazioni competitive dello yuan e la perdita in due mesi di 1/4 di valore della borsa cinese, con una massa d’urto di capitali in fuga (tra luglio e ferragosto, dopo le svalutazioni, sarebbe uscito dalla Cina un numero di yuan pari a 125 miliardi di dollari) che trovano ricollocazione in occidente non sempre a fini d’investimento. Dollaro ed euro per ora tengono, e così le esportazioni europee, ma non si fa fatica ad immaginare cosa accadrà se la crescita cinese dovesse ridursi ancora, in questa fase di indecisa ripresa europea e di riallineamento americano su valori più contenuti dopo un primo trimestre non proprio positivo.
Se la considerazione si allarga all’intero giro dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) e agli emergenti, le nubi che si addensano sull’economia e, di conseguenza, sulla politica globale, diventano ancora più autunnali. Dati di questa settimana informano che dai 19 primi paesi emergenti sono usciti, nell’anno, più di mille miliardi di dollari, la metà di quanto era entrato per investimenti produttivi o speculativi nel quinquennio precedente.
Sotto questo ripiegamento degli emergenti, l’intera economia globale vacilla. Moody’s avverte che le venti economie maggiori cresceranno solo del 2,7% quest’anno e del 3% il prossimo. Gli scongiuri vanno a ciò che accadde 18 anni fa quando la Thailandia cominciò a franare, tant’è che, come Wall Street Journal ha richiamato giorni fa, in una ricerca prodotta dalla banca HSBC, sull’attuale fase, si scrive: “The World economy is like an ocean liner without lifeboats”.
Le scialuppe di salvataggio dovrebbero venire da Ue e Usa che, apparentemente, hanno economie più in ordine e hanno valorizzato la lunga crisi iniziata alla fine del 2006 in America, per attrezzarsi di fronte al ripiegamento delle opportunità di sviluppo. Il problema è che le tradizionali politiche interventiste di rilancio potrebbero oggi risultare armi spuntate. Abbassare i tassi per favorire investimenti e indebitamento è un nonsense quando, sia in Usa che nell’eurozona, il costo del denaro è prossimo allo zero. Né è lecito pensare di affidarsi a politiche espansive dei governi, indebitati oltre il collo e con impegni di spesa strutturali da onorare, specie in materia di pensioni, prestazioni sociali, sicurezza. Ci infiliamo nella stagione finanziaria, prevista con largo anticipo dai demografi, delle pensioni agli affluent baby boomers che molto hanno versato durante la vita professionale e ora passano alla cassa per riscuotere. Agli Usa, che entrano nel settimo anno di espansione, non si può chiedere l’impossibile, visto che hanno già superato di 16 mesi la media dei loro cicli di sviluppo del dopoguerra. Bisogna che sia l’Europa a rilanciare il proprio sviluppo, smettendola con gli eccessi di austerità formale. Purtroppo gli avvenimenti che si succedono tra Medio Oriente e Golfo, uniti ai comportamenti assertivi che Russia e Cina assumono rispettivamente in Europa orientale e Pacifico, obbligano a spendere anche in sistemi di difesa.
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