L’arrivo delle milizie del “califfo” alle porte di Palmira e di Ramadi ha riscosso l’attenzione del mondo intero. Prima ancora che l’irreparabile venga commesso, vale forse la pena di approfondire cosa stia succedendo in quel martoriato angolo del mondo.
Cominciamo da Palmira, e dal rischio che uno dei gioielli dell’umanità (il sito archeologico di epoca romana, nd.r.) possa finire vittima del vandalismo degli autoproclamati guerrieri di Dio dell’ISIS. Da dove proviene quella furia devastatrice che li anima? Dall’ideologia di cui sono stati nutriti: il wahabismo. Il fondatore di quella setta, Muhammad ibn Abd al-Wahhab, fu considerato al suo tempo (il Settecento) come una sorta di teppista eretico e cacciato da ogni città in cui metteva piede, proprio perché aveva come precetto la distruzione dei monumenti antichi, e persino delle tombe dei cimiteri, considerati luoghi di culto fraudolenti e generatori di tendenze politeiste. La sua fortuna fu di finire sotto la protezione dell’ambiziosa tribù dei Saud, che se ne servì come testa d’ariete ideologica per la conquista e la sottomissione di tutta la penisola arabica (conquista la cui testa d’ariete politica e militare fu il decisivo aiuto degli inglesi).
Ovviamente il wahabismo non è che un indizio della filiazione saudita delle bande del “califfo”. La geopolitica ci racconta il resto della storia. E cioè che quella guerra non è altro che la guerra per procura che si combattono l’Iran e l’Arabia Saudita per l’egemonia della regione.
Quali sono dunque le novità di quella guerra che, da qualche giorno a questa parte, hanno di nuovo fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte dell’ISIS, e spinto l’amministrazione americana a immaginare un cambio di strategia nella regione?
La prima novità, naturalmente, è l’accordo sul nucleare con l’Iran di quasi due mesi fa. Abbiamo già detto che il nucleare è solo un pretesto. Il vero nucleo di quell’accordo è la comune volontà di una parte dei dirigenti americani e di una parte dei dirigenti iraniani di chiudere quella (per loro) infelice pagina storica della rottura delle loro relazioni. Era evidente che quella strategia avrebbe provocato dei malumori e delle reazioni negative; ora stiamo cominciando a prenderne la misura.
Non solo i malumori di quella parte dei dirigenti americani e dei dirigenti iraniani che erano, sono e resteranno ostili all’accordo, trascinati dall’inerzia ideologica delle reciproche maledizioni che i due paesi si sono scambiati negli ultimi trent’anni. Ma soprattutto i malumori di coloro che si sono sentiti lesi da quell’accordo. In primo luogo l’Arabia Saudita, per l’appunto.
La prima reazione è stata la creazione della “coalizione internazionale” intervenuta militarmente nella guerra civile dello Yemen. Da più parti è stato fatto notare che i sauditi non si erano mai impegnati militarmente in un conflitto, ma avevano sempre utilizzato altri eserciti e altri volontari pronti a combattere per le sue cause (spesso in nome della comune fede wahabita, e soprattutto delle generose dotazioni in petrodollari). Non è precisamente esatto, perché i sauditi, insieme agli altri paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, erano già intervenuti a reprimere le manifestazioni in corso nel Bahrein, piccolo paese a maggioranza sciita, ma governato da uno sceicco sunnita.
È vero che, allora, si era trattato di poco più che di un’operazione di polizia, mentre adesso siamo nel pieno di una vera e propria guerra (tra l’altro con una scarsissima mobilitazione in favore delle vittime che hanno il torto di non essere palestinesi). La differenza è sostanziale. Ma ciò che è stato fatto notare con più insistenza è la ritrovata armonia tra i due padrini più importanti della guerriglia islamista in Siria e Irak: l’Arabia Saudita e il Qatar. Ricordiamo che i due paesi si erano contrapposti in Egitto (e probabilmente anche in Libia e in Tunisia) al momento del rovesciamento di Hosni Mubarak e, soprattutto, al momento del colpo si Stato del generale Abd al-Fattah al-Sisi. Oggi al-Sisi ha fatto condannare a morte il presidente eletto Mohamed Morsi, senza quasi incontrare una reazione internazionale, in particolare nessuna da parte del Qatar, che era stato, con la Turchia, il principale sostenitore del governo dei Fratelli musulmani in Egitto.
La ritrovata armonia tra gli sceicchi wahabiti dell’Arabia Saudita e gli sceicchi wahabiti del Qatar potrebbe portare in dote alla “coalizione sunnita” proprio la Turchia, l’altro grande sponsor internazionale dei nemici sunniti di Assad in Siria. Questa possibilità – reale – deve però essere considerata con cautela: infatti, Turchia e Iran sono due Stati con una tradizione politica e un senso dell’interesse nazionale molto forte e radicato, ed è difficile rubricarli sotto la stessa voce dei paesi che non si sono ancora emancipati dalla loro antica frammentazione tribale.
Da ultimo, tra i malmostosi, bisogna contare la Francia, il cui presidente si è recato nei paesi del Golfo a portare il suo sostegno all’azione intrapresa nello Yemen, a vendere qualche aereo da caccia, e a distinguersi per essere il primo capo di Stato occidentale ad aver partecipato ad una riunione del Consiglio per la cooperazione del Golfo. Al di là delle ragioni di un passo così impegnativo, l’appoggio della Francia è lungi dall’essere insignificante, per il fronte che si oppone all’Iran.
Quel fronte, comunque, dopo l’accordo con l’Iran, è molto più compatto. E molto più bellicoso. I successi militari dei suoi accoliti in Siria e in Irak non possono che essere fatti risalire a questa nuova ritrovata determinazione.
Per questo gli Stati Uniti, che stanno percorrendo la direzione opposta, hanno cominciato a ipotizzare un “diverso tipo di impegno”. E per decidere quale sarà, questo diverso tipo di impegno, si incontreranno con i loro “alleati” il 2 giugno. A Parigi.
È evidente che la guerriglia dei vandali di Dio ha ancora un bell’avvenire davanti a sé.
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