È dicembre del 1993. Nessuno può ancora prevedere il crollo delle Torri Gemelle, che avverrà tra otto anni. Il giornalista Robert Fisk va in Sudan e incontra un guerriero anti sovietico, un uomo d’affari. È il primo incontro di questo tipo con un giornalista del mondo occidentale. Gli si siede davanti, ha una veste con frange dorate e tutt’attorno una schiera di oscuri mujaheddin arabi, nascosti dietro a barbe e silenzio. Non sono armati ma lo guardano a vista. Né Fisk né tanto meno il signore che ha di fronte immaginano che il loro dialogo servirà, tra 22 anni, ad altri giornalisti per contestualizzare un fenomeno che sembra nuovo e invece ha almeno, appunto, 22 anni.
Il signore è Osama Bin Laden, il fenomeno è quello, esploso dopo la strage di Charlie Hebdo a Parigi, dei foreign fighters, i legionari della porta accanto, le persone che decidono di abbandonare famiglie, amici, lavoro e nazione di origine per raggiungere Siria e Iraq e unirsi alle file dei combattenti marchiati ISIS.
Bin Laden in quell’occasione (come si legge nell’articolo che poi Fisk pubblicò per The Independent) spiegò i suoi progetti ingegneristici, illustrò la strada che stava facendo costruire da Khartoum a Port Sudan, parlò di migliaia di combattenti arabi, egiziani, algerini, libanesi, kuwaitiani, turchi e tunisini mandati in Afghanistan, sostenuti con armi e attrezzature e nel ’93 impiegati come manodopera in Sudan. Anche loro avevano lasciato il loro paese per unirsi al gruppo di mercenari, sovvenzionati e addestrati per combattere. Il fenomeno che vediamo ai nostri giorni non è poi così lontano: al posto di Afghanistan le mete sono diventate Siria e Iraq, al posto di cittadini di paesi arabi i nuovi arruolati provengono dall’Europa. La nuova ondata di combattenti stranieri si forma in Francia e Inghilterra, serpeggia tra ragazzi immigrati di terza e quarta generazione, legati ai paesi dove sono nati ma dai quali non si sentono ancora del tutto rappresentati. Il senso di rivalsa li porta ad abbracciare il fondamentalismo visto come via per il riscatto. “La jihad rischia di colmare l’assenza di senso anche spirituale e di vita di questi ragazzi – ha commentato il giornalista Massimo Fini durante la puntata dell'11 gennaio del talk show La gabbia, in onda su La7 – Arruolarsi per qualcosa di più grande vuol dire dare un senso all’esistenza”.
Sbaglia chi pensa però che il fenomeno dei foreign fighters coinvolga solo ragazzini sprovveduti, come racconta a La VOCE di New York Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano e professore nelle università di Harvard, Zurigo e del Maryland. “I foreign fighters sono invece un gruppo molto eterogeneo di persone che varia sotto molti punti di vista: ci sono sì ragazzi di 14 anni ma anche gente di 50, sono per lo più uomini ma c’è un 15-20 per cento di donne, un 30 per cento sono convertiti all’islam. Dal punto di vista dell’educazione troviamo ogni tipo di background, si arruolano studenti universitari, dottorandi, gente con diverse posizioni lavorative oltre a criminali di strada e mezzi sbandati. Se dovessi trovare la caratteristica principale di questo fenomeno direi l’eterogeneità.”
Il numero di adepti europei al Califfato aumenta ora dopo ora, difficile monitorarli. Dai 3.000 ai 5.000 avrebbero già lasciato il loro paese alla volta di Siria e Iraq: sarebbero partiti in 1.200 dalla Francia, in 800 dall’Inghilterra, 600 dalla Germania, 400 dal Belgio, 53 diventati 59 nelle ultime ore dall’Italia. Un fenomeno esploso nell’ultimo periodo visto che nel dicembre 2013 la presidenza lituana del Consiglio dell’Unione Europea parlava di 2.000 militanti. Ma perché lo fanno?

Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano
“Se nell’eterogeneità ritroviamo la loro caratteristica principale troviamo anche varie motivazioni, diverse da soggetto a soggetto – prosegue Lorenzo Vidino – Spesso ci sono più motivi che concorrono alla scelta. C’è chi parte per un senso di avventura: è natura umana soprattutto per i ragazzi giovani partire per andare a combattere, inseguendo il senso di gruppo, di avventura. L’euforia del maneggiare armi è un qualcosa che ha una certa attrattiva su una giovane età. Per altri invece prevale la volontà di andare ad aiutare, di difendere i musulmani che vengono attaccati, soggiogati, nella loro mente si fa spazio l’idea di andare a fare qualcosa di buono e positivo. Per altri il fattore religioso è più importante: vanno a contribuire alla creazione di questo stato utopistico che hanno creato, il Califfato, visto come un’esperienza unica di società perfetta. La maggior parte delle volte comunque le motivazioni sono un insieme di questi fattori”.
Dopo l’11 settembre e l’aumento dei controlli le milizie hanno cambiato pelle e abbandonato i grandi gesti. Ora vincono i piccoli gruppi indipendenti che adescano normali cittadini europei preparandoli a colpire: predicatori itineranti, forum e social networks on line, persino le carceri sono pozzi di risorse dove l’ISIS attinge e recluta a piene mani. Alcuni dei foreign fighters italiani hanno un identikit, un nome e un volto: Giuliano Ibrahim Delnevo, genovese morto ad Aleppo a 23 anni, Giampiero F. 35 anni, in carcere in Iraq per terrorismo internazionale, Maria Giulia Sergio diventata Fatima Az Zahra, l’unica donna, 27 anni di Torre del Greco. L'ultima sua traccia la lascia su un volo da Roma per Istanbul a settembre del 2014, con conseguente entrata in Siria. Anas El Abboubi, marocchino naturalizzato italiano, 21 anni, residente nel bresciano che secondo la famiglia ora si trova in Siria.
Persone partite dall'Italia spesso con in tasca un passaporto italiano. E se dopo l'addestramento dovessero ritornare in patria? Potrebbero rappresentare una minaccia?

Aziz Cherki Hosri, presidente dell’Associazione islamica marocchina Attawassol
La questione è delicata secondo Vidino: “Alcuni di quelli che ritornano non sono pericolosi perché non avranno voglia di avere più nulla a che fare con quel mondo. Tra chi tornerà ci sarà anche chi vorrà vivere una vita normale. Ci sono soggetti però che una volta ritornati vorranno vedere la loro vita in occidente come un’estensione della loro vita in Siria. Abbiamo già avuto i primi sentori. Non penso solo a Parigi ma anche all’attentato di Bruxelles del maggio dell’anno scorso dove un reduce della Siria ha ucciso quattro persone nel museo ebraico. Ma la questione da un milione di dollari è il capire, di questi centinaia e centinaia che tornano, quali potrebbero essere pericolosi e chi invece non lo sarà. Quello dei foreign fighters non è un fenomeno nuovo, quello che è nuovo ora sono le dimensioni.”
Nelle classifiche delle ragioni dei nuovi reclutati, spesso la religione, l’Islam, si posiziona ai primi posti. Ma davvero l’Islam c’entra così tanto con i foreign fighters? Lo chiediamo ad Aziz Cherki Hosri, presidente dell’Associazione islamica marocchina Attawassol che ha sede in provincia di Vicenza. “I foreign fighters si arruolano per diventare dei terroristi. Ma il terrorismo non ha paese, fede né religione. Noi musulmani stiamo vivendo giorni difficili, ci troviamo in mezzo ad un’islamofobia che non meritiamo. Dopo anni spesi nei nostri comuni italiani cooperando per l’integrazione e la pace ora ci viene gettato fango gratuito addosso per colpa di questi pazzi. Non lo diremo mai abbastanza: foreign fighters non sono l’Islam.”